Questo post è nato da un cortocircuito tra un’immagine, una lettura, una frase e un’emozione; scrivendolo si è tramutato in una speranza.

Entro nella segreteria di una scuola superiore, un lungo corridoio scuro è tagliato a metà da un tavolo sul quale è poggiato un registro aperto. In fondo al corridoio, dalla parte opposta alla mia c’è una finestra e sotto una scrivania occupata da una signora che sta scrivendo qualcosa; la luce del sole scende sulla sua testa china. Quando entro, lei alza lo sguardo verso di me, poi lo riabbassa e riprende a scrivere. Penso che stia facendo qualcosa di importante; mi ha visto, appena sarà libera verrà da me.

Sono miope e indosso occhiali da sole graduati; come al solito ho dimenticato da qualche parte quelli normali. Una decina di passi mi separano dal mio oggetto del desiderio. Passano 5 minuti. Ogni tanto la segretaria alza lo sguardo e lo riabbassa. Comincio a essere impaziente; tiro fuori dalla borsa un minuscolo libro della bellissima piccola casa editrice Via del vento. Sono poesie. Per leggere mi levo gli occhiali. Dopo pochi secondi, la signora viene da me e mi dice sollecita: “Mi scusi se l’ho fatta aspettare, mi scusi! L’avevo scambiata per una studentessa; poi quando si è levata gli occhiali…”. La ringrazio per il complimento e imputo l’equivoco alla sinistra oscurità del luogo e alla scarsa vista della segretaria corretta da grandi e spesse lenti.

Cito l’episodio perché questo malcostume quotidiano di considerare i ragazzi come categoria a cui può essere inflitta maleducazione e piccole umiliazioni, buttando loro addosso disinteresse e indifferenza, è uno dei problemi di questo nostro paese. Nessun politico sembra tener conto di questa brutta realtà: fanno un bel gridare di cambiare, di innovare e altri di rottamare; mi piacerebbe invece un politico che dimostri di saper ascoltare. Ascoltare con attenzione per capire quali bisogni stia esprimendo la parte che dovrà ereditare il nostro paese, se per caso stia coltivando qualche sogno.

Vorrei che nessuno passasse avanti a uno/a di loro mentre è in fila alla cassa del bar, troverei meno disdicevole se fossi io oggetto della prepotenza; vorrei che le segretarie del liceo, appena vedessero un allievo/a in attesa, mollassero ogni cosa importante e corressero per sentire di cosa ha bisogno il rappresentante del nostro futuro. Potremmo così ridare un po’ di dignità a quel traghettatore che solo può condurci in un’epoca meno crudele.

Non dico che così colui che ha perso il lavoro o la brava studentessa spaventata dal futuro o il giovane in cerca di un impiego potrebbero essere più felici: non basterebbe. Ma almeno sentirebbero di vivere e di poter contare su un paese che li rispetta, che ripone in loro speranze, invece di considerarli un problema o una massa di elettori pronti a rispecchiarsi in chi gli è coetaneo.

Per un caso della vita, recentemente mi è successo di ascoltare alcune persone tra i 17 e i 25 anni afflitti da angosce diverse: paure, delusioni, assenze di significato; mi ha sorpreso che alcune esprimessero un desiderio di morte.

Studenti, lavoratori, neolaureati. I famosi “giovani”. Si tratta di un malessere capillare, che non trova sollievo se non nell’idea di scomparire e liberarsi una volta per sempre di un futuro carico di niente.

Non ho ricette. Però so che per cambiare bisogna cominciare da piccoli, piccolissimi passi; dimostriamo una fiducia quotidiana nelle loro capacità. E’ un atto di egoismo: perché quando loro sono disperati, noi siamo già morti.

 

La poesia che stavo leggendo era di Osip Mandel’stam e dipinge un paese martoriato dalla dittatura; inizia così:

 

Viviamo senza sentire il paese sotto di noi,

i nostri discorsi non si sentono a dieci passi…

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