Una decina d’anni or sono, dopo che le Twin Towers sono venute giù in tanti piccolissimi pezzi, c’è stato un momento, interminabile, in cui in tanti club non si sentiva altro che Strokes, Libertines e compagnia cantante. Ricordate? Sì.

The Libertines, dicevamo. Inglesissimi – quel tipico mix di indolenza, strafottenza, orgoglio, languido romanticismo ed ubriachezza molesta – talmente british che inizialmente avrebbero voluto chiamarsi The Albions (!), la prima band di Peter Doherty e Carl Barat cresce con uno stile plasmato tanto dal garage quanto dal punk: in particolare dai Jam, dai Clash, dai Buzzcocks, dagli Smiths ma nella loro musica si sentiva ogni tanto qualche scoria newyorkese tipo Johnny Thunders, Richard Hell, Television nonché Violent Femmes. Gli ex studenti libertini, accasatisi a Camden Town, hanno avuto sin da subito mentori e sponsor d’eccellenza: il primissimo singolo, nel 2002, What a Waster, era stato prodotto da Bernard Butler, chitarrista dei Suede mentre entrambi gli album nientepopodimeno che da Mick Jones, chitarra e voce dei Clash. Mi riferisco all’ottimo Up the Bracket (2003) e all’album omonimo uscito l’anno successivo, disco dalla gestione ed esito più difficili del previsto, tanto da portare allo scioglimento della band.

Com’è che cantava Ian Dury? Sex and Drugs and Rock ‘n’ Roll… Vi risparmio tutta la storiella su quanto Pete si drogava, quanto litigava con l’amico Carl Barat e quanto se la spassava con Kate Moss. Barat lo espelle dai Libertines a tempo indeterminato finché Doherty non si sarebbe ripulito ma lui finisce addirittura in galera per un paio di mesi per aver rubato a casa sua. Nel 2004 la band cesserà temporaneamente di esistere (sino alla successiva reunion) e Pete si dedicherà da quel momento in poi principalmente alla sua nuova band, i Babyshambles. E sarà ancora Mick Jones a produrre il loro primo lavoro, Down in Albion (2005): al suo interno trovano spazio persino un pezzo reggae come Pentonville, il penitenziario londinese in cui Doherty era stato recluso per qualche giorno, ed una nuova versione di Killamangiro, ovvia storpiatura del nome Kilimangiaro, la sacra montagna africana, gioco di parole a designare l’uccisione di un uomo per fregargli i soldi sul suo conto in banca. Nel brano d’apertura, La belle et la bete, si può sentire anche la voce della top model e poi fidanzata Kate Moss. Pur non andando a parare su terreni alieni e restando nell’alveo di quella tradizione molto british citata in precedenza, in questo che è il primo disco senza il suo amico per la pelle, si respira un’aria un po’ diversa dal solito, un songwriting un po’ più intimo e meditativo. Molto, troppo carino e ben confezionato il seguente Shotter’s Nation (2007), il primo non prodotto dall’ex Clash bensì da Stephen Street, già al lavoro con Smiths, Blur e Cranberries. Il problema principale è che in questo disco tira un’aria di revivalismo garage e post-punk a tratti ormai irrespirabile, posato e manierista.

Nel 2009 arriva il debutto solista con Grace/Wastelands: un disco di delicate ballad acustiche d’antan, notturne e decadenti, che evocano tutt’altro immaginario, con qualche soluzione inaspettata. Nel complesso un lavoro apprezzabile che quantomeno segna un cambio di registro ed una scossa in una discografia che si stava pericolosamente cristallizzando nel cliché. Alla chitarra un pezzo grosso come Graham Coxon dei Blur.

Peter Doherty sarà in concerto martedì 11 settembre al Corallo rock club di Scandiano (RE), viale della Rocca 4/e, unica data nell’Italia settentrionale. In apertura, come gruppi spalla, un paio di band della Insomnia Records, i reggiani Last Stroke e gli Jontom da Roma.

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