Migliaia di studenti cinesi sono stati costretti a posticipare gli studi per partecipare a stage nelle fabbriche della Foxconn, l’azienda taiwanese che fornisce componenti alla Apple e che si è tristemente guadagnata le prime pagine di tutto il mondo nel 2010, quando nelle sue fabbriche si registrò una catena di almeno 14 suicidi. L’iniziativa sarebbe dovuta alla necessità di aumentare la produzione, in vista del lancio del nuovo modello dello smartphone della Apple, l’iPhone5, la cui uscita è prevista per il 12 settembre. La vicenda è stata rivelata dal quotidiano Shanghai Daily che ha riportato la voce degli stagisti stessi.

La denuncia di “stage illegali” era già avvenuta a maggio di quest’anno, quando un report della Students and Scholars Against Corporate Misbehaviour aveva messo in luce il regime militaristico delle fabbriche e l’utilizzo degli studenti in formazione come operai nelle fabbriche Foxconn sparse sul territorio cinese. La Foxconn è l’azienda privata che impiega il maggior numero di lavoratori in Cina (sono circa un milione 200mila) e aveva promesso miglioramenti nella tutela dei lavoratori proprio a seguito delle inchieste che accompagnarono e seguirono la lunga scia di suicidi causati da stress lavorativo che aveva colpito operai e impiegati dei suoi stabilimenti.

Nella primavera scorsa il suo presidente Terry Gou aveva accettato di riportare le sue fabbriche nei limiti della legge cinese. Entro il 2013, l’orario di lavoro dei suoi dipendenti sarebbe stato quello di 40 ore a settimana con un massimo di 36 ore di straordinario mensile. L’occasione era stata il primo viaggio in Cina di Tim Cook che, appena prese le redini dell’azienda del compianto Steve Jobs, si era riproposto di fare quello che il suo predecessore non aveva ancora fatto: porre rimedio alle violazioni dei diritti dei lavoratori negli impianti cinesi.

L’azienda era nel pieno di quello che i media avevano chiamato il “momento Nike” della Apple. Il “momento Nike”: ovvero quando un marchio internazionale che ha raggiunto l’apice in termini sia commerciali che di visibilità ed entra nel mirino delle associazioni delle società civile che si occupano di rispetto dei lavoratori e di tutela dell’ambiente e che puntano i riflettori sulle modalità di produzione. Il report della Sacom si inseriva in questo dibattito per denunciare che ben pochi progressi erano stati fatti in merito alla tutela dei diritti dei lavoratori. Lo aveva fatto portando all’attenzione mediatica – il quotidiano inglese Guardian aveva verificato i dati prodotti con un equipe di professori universitari – i risultati di un’indagine portata avanti in 19 stabilimenti Foxconn in 14 città del paese per due anni: 2.409 questionari completati, 500 interviste e investigatori in incognito che si facevano assumere dalle aziende.

Oltre a non aver trovato traccia dei tanto sbandierati aumenti salariali, l’indagine aveva messo in luce che i governi regionali erano disposti a pagare per assicurarsi che Foxconn investisse nella propria regione (un costo presunto di 600 yuan, circa 70 euro, a lavoratore come documentato nel caso della regione dello Henan) e aveva denunciato con forza il problema degli stage forzati (anche proprio in una di quelle fabbriche visitate dallo stesso Tim Cook). A seguito di queste indagini si era scoperto che già nell’estate del 2010, quando la Foxconn era scossa della famosa ondata di suicidi, centomila studenti di istituti professionali dello Henan erano stati mandati a lavorare nello stabilimento Foxconn di Shenzhen. Chieste delucidazioni all’azienda, questa si era schermata dietro la “difficoltà di regolarizzare gli stagisti”. Per la legge cinese, infatti, non sono impiegati veri e propri e non hanno quindi alcun rapporto lavorativo con la fabbrica che li “ospita”. 

Le notizie riportate ieri dal quotidiano di Shanghai non fanno altro che confermare quell’inchiesta e la consapevolezza che il problema non è ancora stato risolto ed è, se possibile, più esteso di quanto non si pensasse. Quello che viene fuori dalle interviste agli studenti coinvolti e dalla lettura dei loro forum è che nella regione del Jiangsu migliaia di studenti sono stati caricati su pullman e inseriti nella linea di produzione dello stabilimento locale della Foxconn. La “deportazione” sarebbe avvenuta su ordine del governo locale, senza che i genitori fossero avvisati o che gli studenti avessero firmato alcun accordo. Incrociando le stesse fonti si evince che gli studenti “in formazione” sono tenuti a lavorare sei giorni a settimana, 12 ore al giorno, per una paga di 1550 renminbi al mese (circa 190 euro). Non solo: sono anche costretti a pagare “centinaia di renminbi per vitto e alloggio”. 

E ancora. Il fatto che non possano essere considerati “stage formativi” è palese quando si considera la provenienza universitaria degli studenti coinvolti: diritto, inglese, economia aziendale. È chiaro che la maggior parte di loro voglia tornare al più presto ai propri studi. A seguito delle polemiche e della pressione dell’opinione pubblica, almeno due scuole avrebbero annullato la cooperazione con la Foxconn per i “tirocini” ma – sempre secondo gli studenti – la maggior parte delle scuole e delle università coinvolte minacciano di non rilasciare il diploma di fine anno se non si inserisce nel piano di studi uno “stage formativo” alla Foxconn. Consola solo il parere dell’avvocato Wu Dong riportato dallo Shanghai Daily: “Si tratta di una pratica in violazione delle norme sull’istruzione e sul lavoro. Sia la Foxconn che le autorità locali potrebbero essere trascinate in tribunale”. Con la speranza che qualcuno abbia il coraggio di farlo.

di Cecilia Attanasio Ghezzi

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