L’Hotel Raphaël è appena dietro piazza Navona, ha la facciata ricoperta di vite vergine, glicine e buganville, i salottini bianchi della hall in mezzo ai quadri di Mirò, Morandi, De Chirico, le sculture, le litografie, i pezzi di antiquariato, la collezione di ceramiche di Picasso e di arte Maya che ne fanno un vero e proprio museo di arte antica e moderna.

Alle 19.30 del 30 aprile 1993 davanti al Raphaël c’è un gruppo di manifestanti, ci sono gli agenti di polizia in assetto antisommossa, ci sono i reporter. Dall’ingresso principale esce Bettino Craxi. Sono pochi secondi destinati a finire nella storia della repubblica. C’è una Lancia Thema ad aspettarlo con le portiere aperte. “Stanno tirando di tutto” dice l’inviata del TgDue. Il giorno prima la Camera dei deputati ha negato l’autorizzazione a procedere nei confronti del leader socialista accusato dei reati di corruzione e finanziamento illecito di partito. L’impatto sull’opinione pubblica è violento. Davanti al Raphaël va in scena il rito sacrificale: volano le famose monetine, si sventolano banconote da mille lire accompagnate dalle grida “prenditi anche queste”, si scandisce in coro la parola “ladro”. Craxi entra nella Thema insieme a Luca Josi e al fotografo Umberto Cicconi. Poco prima, nelle stanze del Raphaël, è stato avvistato un fedelissimo di Craxi, un imprenditore amico che risponde al nome di Silvio Berlusconi. Lui però, all’ultimo momento, ha preferito uscire dal retro dell’hotel. Qualche giorno dopo il lancio delle monetine Craxi fugge ad Hammamet in Tunisia, passando per Parigi. In Tunisia passerà gli ultimi anni della sua vita, da latitante, sotto la protezione dell’amico Ben Ali, fino alla morte avvenuta il 19 gennaio del 2000.

Proprio da questo episodio prende avvio l’ultimo romanzo di Franz Krauspenhaar, uscito ad aprile per Gaffi editore, che si intitola appunto Le monetine del Raphaël. È il requiem di un’epoca tra le più oscene della storia d’Italia, quella che visse il suo acme negli anni Ottanta, gli anni in cui il lato più sboccato del potere fece per la prima volta capolino nelle cronache pubbliche e la trivialità divenne la regola liberatoria che avrebbe aperto il campo alla politica spudorata del ventennio berlusconiano. È la storia di un pittore affamato di vita, Fabio Bucchi, seguace di Francis Bacon di cui ha le stesse iniziali, allineato al codazzo di quella corte dei miracoli che circondava “il Capo” negli anni ruggenti del potere craxiano. Un personaggio allucinato, inappagato, violentemente disilluso, che incendia i suoi anni fra orge e arte, alla ricerca del suo ápeiron, del principio costituente del genio, fino a digradare verso un crepuscolo fisico ed esistenziale dolorosissimo e impietoso.

Franz Krauspenhaar mette in scena il resoconto tragico di quest’uomo, infilzato nella storia d’Italia come un cuneo avulso, e tuttavia simbolo del vuoto pervadente che soggiaceva alla Milano da bere (magistrale la scena in cui un Robert Palmer sbronzo allo stadio terminale esce da un locale sui navigli e insieme al vomito sembra rigettare tutta la finzione dell’arte plastificata di cui era emblema). In questo senso il pittore Bucchi non è il testimone di un’epoca, o meglio non solo; il suo essere presente nella scansione dei grandi drammi d’Italia – la visione diretta dello scempio alla stazione di Bologna, per esempio, lo inchioda così in profondità da condizionarne tutta l’arte successiva – forgia la sua iper-umanità. Bucchi è una delle tante viscere scoperte di questa nazione, ne è un risultato impressionante, sia in termini artistici che materiali.

Sorretto da una prosa spessa come una colla, in cui la parola non dà sconti ma arriva ogni volta a toccare il nervo delle cose, Le monetine del Raphaël è un lavoro che alterna momenti struggenti e non privi di poesia a rabbiose invettive contro quel fascismo pervasivo che da sempre erode le radici del popolo italiano. È un romanzo-inferno, in cui il lettore è costretto a girare in tondo fino a sprofondare in un turbine sempre più stretto e claustrofobico, un vortice che finisce per assomigliare funestamente alla storia di questo paese.

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