Ha urlato il suo nome e poi ha aperto il fuoco nella sua direzione. Lui deve aver riconosciuto il suo sicario e i due che lo accompagnavano. Ed è fuggito via, travolgendo sedie e tavolini. Non gli è bastato. A trafiggerlo almeno cinque colpi, che lo hanno raggiunto prima alla gamba destra e poi al torace. A finirlo il fucile che gli è stato spaccato in testa, mentre era già agonizzante. È stato freddato così Antonio Presta, 29 anni, alle 23,30 di ieri di fronte alla sala giochi in via Walter Tobagi, nel centro di San Donaci, provincia di Brindisi. A rimanere ferito un altro giovane, Pierarcangelo Giuffreda, 22 anni di Mesagne, raggiunto da alcuni pallini alla testa ma non in pericolo di vita. Al momento, secondo gli investigatori, la presenza di quest’ultimo sul posto era occasionale. È questo l’agguato che, a prima vista, ha risvegliato dubbi pesanti e ha fatto calare, di nuovo, su Brindisi, l’ombra lunga della Sacra Corona Unita.

Antonio Presta è figlio di Gianfranco Presta, 55 anni, di San Donaci, ex luogotenente del fondatore della Scu Pino Rogoli, ex collaboratore di giustizia, ex sottoposto al programma di protezione, revocatogli nel 2009 in seguito a rapine commesse anche assieme al figlio, tra le Marche e la Romagna, dove entrambi si erano trasferiti. Un nome, dunque, che porta con sé il fardello di una storia lunga, difficile e rancorosa, culminata nel 1998, quando la compagna di Gianfranco, Lucia Pagliara, venne brutalmente colpita a morte con lanci di pietre, a Mesagne. Eppure, questa sembra essere tutta un’altra storia, morta e sepolta da fin troppo tempo per poter essere ancora viva, tanto da scatenare un regolamento di conti ora, a distanza di quattordici anni.

Nei corridoi della Procura di Brindisi, dove a coordinare le indagini è il pm Giuseppe De Nozza, la convinzione è che nessun mafioso avrebbe aspettato così a lungo per vendicarsi. E, soprattutto, nessun mafioso avrebbe agito in quel modo, che non appartiene ai codici della Scu. Un omicidio in pieno centro cittadino, in un luogo tanto affollato, sebbene alle soglie della notte, difficilmente potrebbe essere un delitto targato Quarta Mafia. Ma ci sono anche altri particolari a far deviare le piste investigative lungo altre direzioni. Se l’assassinio fosse davvero legato alla vendetta nei confronti del padre Gianfranco, allora Antonio Presta certamente non avrebbe avuto motivo per riconoscere i suoi sicari, alla cui vista, invece, ha tentato di scappare. Anche per i killer, sarebbe stato più ovvio attenderlo sotto casa, piuttosto che raggiungerlo davanti ad un locale gremito, a bordo della Lancia Delta risultata poi rubata e ritrovata in mattinata in contrada Uggio, nelle campagne tra San Donaci e Mesagne. Non solo. Chi ha sparato non si è accontentato di esplodere i sei colpi mortali. Ha raggiunto Presta, già moribondo sull’asfalto, e gli ha spezzato in testa il fucile calibro 12, ritrovato sul posto assieme ad una vecchia pistola a tamburo calibro 38 di fabbricazione estera. E questo gesto, assicurano dagli ambienti della Procura, è tipico di qualcuno che ha un forte risentimento personale nei confronti della sua vittima.

Chi si deve limitare a regolare vecchie pendenze non arriva a tanto. Cosa c’è, allora, dietro l’omicidio di Presta che, al pari dell’attentato alla Morvillo Falcone, ha riacceso l’incubo Scu nella bassa Puglia? “E’ ovvio che le indagini sono condotte a 360 gradi- dice il maggiore Alessandro Colella, al comando dei carabinieri del reparto operativo di Brindisi, che svolgono le indagini assieme agli uomini del nucleo di Francavilla Fontana-. Ciò che è difficile è stabilire con certezza se Antonio Presta, al di là della figura del padre, fosse ora all’interno del reticolo della Scu, che ha confini fin troppo liquidi, o fosse invece una scheggia isolata. Non escludiamo nulla, specie il fatto che nel suo recente passato sia stato condannato per reati contro il patrimonio e soprattutto per fatti di droga”. Ecco, potrebbe essere questo il risvolto. Debiti accumulati nel giro dello spaccio. O, addirittura, si ipotizza la pista passionale. Si scolorirebbero, invece, per quanto continuino a rimanere in piedi, le tracce che portano al vissuto del padre Gianfranco Presta, nel frattempo trasferitosi nel Lazio. L’ex boss testimoniò contro i vertici della criminalità organizzata locale, ma non fu un teste chiave, visto che le sue deposizioni vennero ripetute identiche da molti altri pentiti e sono alla base di processi già conclusi e con sentenze già passate in giudicato. Certo, la mafia non dimentica. Ma qui ha dimostrato di non volere e sapere aspettare troppo. Ad ogni agguato, però, ad ogni attentato, dimostra anche di essere ancora il primo pensiero a cui tutti fanno ricorso. 

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