«Finchè quella donna del Rijksmuseum / nel silenzio dipinto e in raccoglimento / giorno dopo giorno versa / il latte dalla brocca nella scodella, / il Mondo non merita / la fine del mondo». Ieri lo studente di storia dell’arte Giulio Burresi ha letto questi magnifici versi dedicati a Vermeer da Wisława Szymborska nel corso di una pacifica insurrezione intellettuale contro la chiusura del complesso museale del Santa Maria della Scala, a Siena.

E questa è la parte più bella della storia. Tutto il resto è la tipica, brutta storia italiana: una storia di occasioni perdute, ignavia, clientelismo.

Andiamo con ordine. Il Santa Maria della Scala è un monumento di rilievo internazionale. Tanto vasto e articolato (duecentomila metri cubi) da avere una scala più urbanistica che architettonica, il complesso nasce nel Medioevo come ospizio per i pellegrini che percorrono la Francigena, e si accresce fino ad occupare tutta la sommità dell’‘acropoli’ senese, di fronte al Duomo. A Siena arte e cittadinanza sono sempre andate a braccetto, e lungo i secoli l’ospedale della Scala si è rivestito di spettacolari opere d’arte: dagli affreschi quattrocenteschi che coprono il Pellegrinaio (la corsia per i pellegrini), a quelli del Vecchietta e di Domenico Beccafumi, fino alla gigantesca Piscina probatica srotolata sull’abside della grande chiesa interna da Sebastiano Conca. E poi il Tesoro, le rarissime corsie ospedaliere medioevali, cappelle, oratori, strade coperte, sotterranei strepitosi.

Che fare di tutto questo ben di Dio? Una volta tanto gli storici dell’arte avevano avuto le idee chiare. Nel 1968 il senese Cesare Brandi scrisse sul Corriere della Sera che bisognava sloggiare gli ultimi apparati sanitari dall’Ospedale: «E appunto perché unico al mondo dobbiamo vederlo in funzione, con i suoi letti e i suoi ammalati? Insomma questa indecenza deve finire. Il Pellegrinaio si deve poter vedere: come un museo, perché è un museo». L’idea – poi abbracciata con straordinaria forza da un altro grande storico dell’arte, Giovanni Previtali – era quella di trasformare la Scala nel Museo di Siena per eccellenza. Il progetto prevedeva di portarci la Pinacoteca Nazionale (ancora oggi in ambienti assolutamente inadatti, e ora anzi messa a rischio da un demenziale progetto di smembramento per epoche) e il dipartimento di storia dell’arte dell’Università: mostrando così visibilmente cos’è un museo, e cioè in primo luogo un centro di produzione di conoscenza. È per questo che il Comune di Siena comprò e sistemò al Santa Maria la biblioteca di uno dei più importanti storici dell’arte italiani, Giuliano Briganti. Ed è sempre per questo che lì hanno luogo anche il Museo Archeologico e un Centro d’arte contemporanea.

Ma tutti questi frammenti non sono stati mai connessi tra loro, e il grande progetto di Brandi e Previtali non si è realizzato.

Perché? Perché, ad un certo punto, il virtuoso ‘sistema-Siena’ si è involuto in un gorgo di clientelismo provinciale che ha inghiottito anche il Santa Maria. L’enorme quantità di quattrini che il Monte dei Paschi faceva piovere sui buoni e sui cattivi ha portato ad una degenerazione in cui non contavano più la qualità del progetto, o la qualità delle persone, ma l’affiliazione e la spartizione. È così che la Scala è divenuto uno scatolone per mostre (alcune – come quelle su Duccio o sul primo Rinascimento a Siena – belle e importanti, altre pessime) ed eventi, finendo per trasformarsi in una fondazione controllata dal Comune, e non (come invece avrebbe dovuto) in un istituto di ricerca finanziariamente autosufficiente, e soprattutto separato dalla politica.

Ora che il Comune è commissariato, l’Università è semifallita e soprattutto il Monte è sprofondato in un baratro finanziario, l’acropoli di Siena rischia di diventare la simbolica tomba dell’idea di cultura come bene comune. Mentre al Santa Maria della Scala l’effimero dell’evento si è mangiato il monumento, dall’altra parte della piazza la venerabile Opera del Duomo (un’istituzione pubblica millenaria) viene ceduta in buona parte a una controllata di Civita, azienda privata con scopo di lucro, per iniziativa del rettore stesso dell’Opera, nonché amministratore delegato della Richard Ginori in fallimento a Firenze.

Il governatore della Toscana Enrico Rossi ha stanziato 400.000 euro per «salvare il Santa Maria della Scala»: se intende farlo davvero ci vuole molto più dell’ennesimo finanziamento gettato nel pozzo. Ci vuole un vero progetto culturale: cioè una rivoluzione.

 

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