In questa Italia martoriata dalla crisi del lavoro, in questa Sardegna dove per difendere i posti di lavoro minacciati i minatori sono costretti a chiudersi a quattrocento metri di profondità e a tagliarsi i polsi, in questa Università dove il diritto al lavoro sembra spesso sopraffatto da altre pratiche che mortificano il merito e la parità delle opportunità, accadono cose strane.

Un bando di concorso dell’Università di Cagliari, tuttora aperto (i termini per iscriversi a quel concorso scadono il 10 settembre), apre otto posti di Ricercatore a Tempo Determinato (detto anche Rtd), la nuova figura – precaria – che ha sostituito, a seguito della riforma Gelmini dell’Università, la vecchia figura del Ricercatore (a tempo indeterminato) spingendo ancor più l’Università sulla via di una precarizzazione massiccia delle figure che vi operano. Fin qui nulla di strano: anzi, in tempi di vacche magre, è bene che ci sia un Ateneo che in un solo bando istituisce otto posti. Ed è anche bene che il bando in questione sia rivolto a giovani altamente formati e in possesso di un’esperienza di ricerca all’estero di almeno tre anni. Così si fa per favorire il rientro dei cervelli e valorizzare le loro competenze.

La cosa singolare è invece che quei posti sono aperti solo ai sardi o ai figli di sardi (o comunque ai residenti in Sardegna), alla faccia delle pari opportunità di accesso. Non sono un giurista, ma ho il vago sospetto che quel bando puzzi di incostituzionalità (articoli 4 e 120): di questo aspetto non posso dunque occuparmi direttamente. Ciò che invece mi preme è rilevare l’enormità politica di questa scelta: se un ateneo lombardo o veneto avesse emanato un bando analogo si sarebbero levate senza dubbio mille e mille voci di biasimo, di condanna, di protesta, si sarebbero smossi i partiti e i loro leader per gridare all’attentato alla libera circolazione del sapere, si sarebbe preso lo spunto per deprecare l’imbarbarimento culturale cui ci conduce la cultura leghista (basterebbe ricordare le proteste che si levarono – anche e soprattutto dalle regioni del Mezzogiorno, tradizionali esportatrici di manodopera culturalmente qualificata – quando proprio da parte della Lega venne la proposta di limitare l’accesso all’insegnamento ai laureati indigeni). Questa stessa pratica, adottata dalla Sardegna, diventa invece “normale”. Inoltre, quasi beffardamente, il sito del Ministero dell’Università che dà notizia di tutti i bandi di concorso di questo tipo, pubblica gli estremi del bando anche in inglese, quasi a suggerire l’apertura internazionale che l’Università italiana vuol darsi.

Si dirà che i posti di Rtd non sono veri e propri posti di ruolo, proprio perché sono a tempo, e che quindi l’Università ha interesse a favorire il rientro dei giovani legati alla sua area di influenza. Ma nell’ordinamento attuale la figura del Rtd non è affatto una figura “in formazione”, come potrebbe essere quella legata a una borsa di studio: è invece di fatto la porta di accesso al lavoro universitario (tanto che il bando prevede che i vincitori abbiano anche precisi obblighi di docenza e di didattica in seno all’ateneo cagliaritano), e non si vede perciò il motivo per cui i giovani sardi dovrebbero avere più opportunità dei giovani di altre regioni. In base a quale principio nell’era della globalizzazione si emettono ancora bandi di concorso che evocano pratiche daziarie più che società liquide?

Sarebbe immaginabile un bando del genere pubblicato dall’Università di Harvard o dal Mit di Boston, dalla Sorbona di Parigi o da un’università indiana?

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