Un partito nervoso, diviso tra progetti spesso lontani e contrapposti. E’ quello che si ritrova oggi a Tampa, in Florida, uragano Isaac permettendo, nella prima giornata della Convention repubblicana. Le ultime ore hanno rilanciato tra i conservatori d’America la speranza di poter davvero battere Barack Obama. Un sondaggio Washington Post/ABC News dà Mitt Romney al 48% e Obama al 47% nelle preferenze di voto degli elettori registrati. Ma girando per le sale dell’enorme Tampa Bay Times Forum che ospita la Convention, parlando con delegati e ospiti, risulta chiaro che l’unico collante per tutti è la sconfitta del presidente democratico. Su tutto il resto – valori, priorità politiche, visione d’America – regnano opinioni diverse e spesso inconciliabili.

“E’ una convention. Non un’incoronazione”, era scritto su un cartello esibito ieri all’entrata della Convention da un gruppo di ragazzi. Si trattava di sostenitori di Ron Paul, scesi a Tampa a centinaia per ridare voce e visibilità alla filosofia libertaria del deputato del Texas. Proprio Paul, nel corso di un comizio per le strade di Tampa, ha detto di “non appoggiare del tutto Mitt Romney”. Ora i suoi delegati contestano le nuove regole decise dalla leadership repubblicana, che nel futuro daranno al candidato alla presidenza il potere di sostituire a proprio piacimento i delegati indicati dagli Stati. Un modo per liberarsi di fastidiosi contestatori, proprio come i sostenitori di Paul, che si preparano ad azioni clamorose di protesta dalla platea della Convention e minacciano il voto contrario a Romney, che verrà designato oggi candidato ufficiale. Sarebbe fonte di serio imbarazzo per un partito che alla vigilia delle elezioni vuole e deve dare un’impressione di unità e armonia.

“Non si tratta soltanto di regole. Romney e i suoi cercano di zittirci e di far trionfare la consueta sporcizia”, ci dice Ryan McLaughlin, un delegato di Paul che viene dal Montana. Lo scontro non è appunto solo procedurale. I fan di Paul sono spesso più “puri” e decisi del loro stesso leader. Non hanno nessun interesse a proibire aborto e matrimoni omosessuali. Si dichiarano per l’assoluta libertà dell’iniziativa privata, e si trovano quindi a disagio in un partito che non appare davvero così impegnato a sostenere la causa libertaria. La cosa è apparsa particolarmente chiara proprio domenica, quando a poca distanza dalla manifestazione dei libertarians, in un teatro art deco di Tampa, si sono ritrovati i cristiano evangelici di Ralph Reed e della Faith & Freedom Coalition. Tra gli invitati Mike Huckabee, Newt Gingrich, Ted Cruz, che si sono scagliati contro “l’attacco di Obama al matrimonio tradizionale”, il suo “assalto alla libertà religiosa”, esemplificato, a detta degli evangelici, dalla scelta del presidente di obbligare le organizzazioni religiose a pagare per lla contraccezione delle loro dipendenti. Dal podio Reed ha chiamato a raccolta i religiosi, li ha invitati a votare in massa per Romney. Tra molti degli intervenuti era però percepibile un senso di forte diffidenza nei confronti dello stesso Romney, un politico della East Coast un tempo pro-choice che non garantirebbe una difesa sufficientemente convinta dei valori cristiani. “Per Romney l’aborto è un fastidio. Meno se ne parla, meglio è. Non vuole perdere i voti moderati”, spiegava Ted Fallon, un battista dell’Alabama arrivato a Tampa per la Convention.

Anche i cristiani sono del resto una galassia, un incontro di simili spesso in competizione politica e di potere. C’è la frangia degli evangelici, forti soprattutto negli Stati del Sud, guidati a Washington da Michele Bachman e da Huckabee. E ci sono i cattolici conservatori, che hanno in Rick Santorum il loro leader politico e nell’arcivescovo di New York, il conservatore Timothy Dolan, la guida spirituale. Il furore messianico di questi gruppi è visto con sospetto dall’ala più moderata e pragmatica del partito, che continua a esprimere la leadership (proprio Romney e il candidato alla presidenza 2008 John McCain ne sono tra i rappresentanti più tipici, come pure i leader di Camera e Senato, John Boehner e Mitch McConnell). Questi repubblicani più tradizionali, cresciuti e forgiati nei palazzi del potere di Washington, sono a disagio con una commistione troppo stretta tra politica e religione. Prediligono il compromesso con i democratici, sono pronti a venir meno all’ortodossia del pareggio di bilancio per compiacere i loro collegi elettorali, non mancano mai di ricordare che, senza il voto degli indipendenti, le elezioni non si vincono.

La concezione aristocratica, tutta “di vertice” di questi repubblicani si discosta del resto profondamente da quella populistica del Tea Party, altra galassia di gruppi e sigle che hanno trovato nel partito repubblicano il proprio rifugio e che al partito hanno portato un senso di sfiducia verso le élites, il disprezzo per le sottigliezze della Washington politica, un combattivo radicalismo contro tasse, immigrati, intervento del governo federale in tema di educazione e sanità. A loro volta i sostenitori del Tea Party, con la loro totale indifferenza per le questioni di politica internazionale, si trovano sul lato opposto dello spettro politico rispetto ai vecchi neocon, celebrati ai tempi di George Bush ma messi in un angolo dal fallimento delle guerre in Afghanistan e Iraq che hanno concepito e guidato. E lontano da tutti gli altri sono i vecchi repubblicani della East Coast, alla Nelson Rockfeller, oggi una specie in via di estinzione, decimata dalle sconfitte elettorali (quest’area del Paese è nelle mani dei democratici, che controllano 20 distretti elettorali della Camera su 22) e dagli addii ad un partito repubblicano che non riconoscono più.

La lista è lunga e potrebbe continuare. La realtà è però quella di un partito “unito come non mai nello sforzo di liberarci di Barack Obama”, come dice l’ex-governatore repubblicano della Virginia, Bob McDonnell, ma diviso su tutto il resto: aborto, immigrazione, tasse, concezione della politica, governo, ruolo degli Stati Uniti nel mondo. “Il partito repubblicano si è allontanato dai suoi principi. E’ diventato l’unione di tante minoranze”, ha scritto più di una volta David Frum, già ghost-writer di George W. Bush, oggi esule dal partito repubblicano. A Romney spetta il compito più difficile. Raccogliere i diversi pezzi e iniziare, da Tampa, la battaglia finale contro Barack Obama. 

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