Conferma su tutta la linea della decisione del gip di Taranto Patrizia Todisco e, quindi, nessuna possibilità di utilizzo degli impianti a cui sono stati posti i sigilli. La pronuncia dei magistrati non lascia molto spazio alla discussione. Secondo i giudici le modalità di gestione dell’Ilva sono state tali da produrre un “disastro doloso”, “azioni ed omissioni aventi una elevata potenzialità distruttiva dell’ambiente (…), tale da provocare un effettivo pericolo per l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone”. Un disastro “determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti”. Il Tribunale del Riesame ha depositato stamani le motivazioni in base alle quali il 7 agosto ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell’Ilva. Confermato il sequestro degli impianti a caldo dell’Ilva senza concedere la facoltà d’uso, che peraltro – viene sottolineato – non era stato richiesto neppure dai legali del Siderurgico. Il Riesame dispone che non si continuino a perpetrare i reati contestati nel provvedimento cautelare.

Un disastro ambientale doloso “ancora in atto”, secondo il Riesame, che “potrà essere rimosso solo con imponenti e onerose misure d’intervento, la cui adozione, non più procrastinabile, porterà all’eliminazione del danno in atto e delle ulteriori conseguenze dannose del reato in tempi molto lunghi”. L’Ilva – secondo il tribunale del Riesame – deve, da un lato, eliminare “la fonte delle emissioni inquinanti (con la rimodulazione dei volumi di produzione e della forza occupazionale)”, dall’altro “provvedere al mantenimento dell’attività produttiva dello stabilimento”, solo dopo averla resa “compatibile” con ambiente e salute. Un intervento ineludibile e urgente, per i magistrati, nel quale è “opportuno e necessario” il coinvolgimento dei vertici aziendali “proprio per la complessità nella scelta e nell’adozione delle misure tecniche che portino al raggiungimento dello scopo cui il sequestro è rivolto”.

Il Riesame ribadisce comunque che dallo spegnimento degli impianti Ilva, da cui potrebbe derivare la “compromissione irrimediabile della funzionalità”, discendono “importanti ricadute” che vanno ad intaccare interessi, pure costituzionalmente rilevanti, quali la “tutela d’impresa produttiva” e “tutela dell’occupazione di mano d’opera”.

Clini: “Dai giudici la stessa linea del governo”. Per il ministro dell’Ambiente Corrado Clini la motivazione del Tribunale del Riesame è molto chiara: indica una strada convergente con quella seguita dal governo. Lavoriamo concretamente nella stessa direzione, ora spetta ad Ilva investire”. “Oggi difendere l’ambiente vuol dire difenderlo con lo sviluppo tecnologico – aggiunge Clini – Difenderlo facendo e non bloccando. Difendere bloccando vuol dire bloccare lo sviluppo del Paese aprendo la strada a fenomeni sociali che sarebbero drammatici”. 

A giudizio del ministro nella vicenda Ilva “la via di uscita è fare in modo che l’impresa investa in nuova tecnologia che il governo, l’Unione europea, la magistratura locale hanno indicato”. A questo percorso, ha aggiunto riferendosi ad alcune frange ambientaliste, “chi si oppone sono quelli che vogliono la chiusura che non è la soluzione, basta guardare – ha proseguito – Cogoleto, Bagnoli, Porto Marghera, Crotone, che sono un deserto da bonificare”. “Dobbiamo confrontarci con chi alza i cartelli con il numero dei morti, lo sappiamo, i morti sono la tragedia di uno sviluppo sbagliato. Se si blocca l’industria senza un nuovo sviluppo tecnologico – ha concluso – si lascia un deserto di contaminazione di terra e di acqua”. E Clini risponde anche a Antonio Di Pietro (“Faccia il suo mestiere, cosa che non ha fatto in tutti questi anni”): “Dal 1999 non mi sono più occupato di questioni ambientali italiane e non ho più potuto seguire i piani di risanamento. Non ho mai avuto la possibilità di farlo perchè non mi hanno fatto toccare palla al ministero dell’Ambiente su questo tema. Da quando sono ministro ho cominciato a occuparmi delle bonifiche bloccate. Mi occupo di Taranto ripartendo dal 1993 e non dal 2011“.

Ferrante: “Motivazioni ragionevoli e di buon senso”. Positiva anche la reazione del presidente dell’Ilva Bruno Ferrante: “Le motivazioni del tribunale del Riesame relative agli impianti chiariscono il senso del dispositivo individuando un percorso ragionevole e di buon senso. In particolare il Tribunale del Riesame attribuisce importanza al coinvolgimento dell’azienda accanto ai custodi definendo precise responsabilità”. “Tale percorso – continua Ferrante – permette all’Ilva di non chiudere gli impianti e ci convince, una volta di più, della necessità di accelerare i processi di innovazione tecnologica e riduzione delle emissioni inquinanti. Va ribadita la massima collaborazione con tutte le autorità, governo e istituzioni locali comprese, per il raggiungimento di un obiettivo, quello della salvaguardia della salute, dell’ambiente, del lavoro e dell’impresa che è patrimonio di tutta la collettività”.

Il Riesame: “La soluzione del problema tocca la Costituzione”. Uno dei passaggi più significativi del provvedimento del Riesame parla anche dell’eventualità dello spegnimento degli impianti e dell’equilibrio necessario tra lavoro, ambiente e salute. Scrivono i giudici: “Prendendo spunto da questo dato di fatto (cioè che lo spegnimento potrebbe equivalere alla compromissione irrimediabile della funzionalità degli impianti), non può non aggiungersi che la questione relativa ai limiti ed ai poteri dell’autorità giudiziaria ed ai limiti ed ai poteri dei custodi nel caso di sequestro preventivo di un enorme e complesso stabilimento industriale quale il siderurgico di Taranto, non è meramente tecnica e fine a se stessa, visto che dalla sua soluzione discendono importanti ricadute concrete, che vanno ad intaccare contrapposti interessi, pure costituzionalmente rilevanti, quali quello della tutela dell’impresa produttiva e quello della tutela dell’occupazione di mano d’opera”.

“Non si tratta certo – concludono – di operare compromessi fra questi ultimi ed i primari interessi alla vita, alla salute e alla integrità ambientale, assolutamente preminenti, quanto piuttosto di individuare quelle soluzioni che, nel giungere alla cessazione delle emissioni inquinanti, consentano di pregiudicare il meno possibile gli ulteriori interessi in gioco”.

“L’inquinamento è stata una scelta voluta dall’Ilva”
Proprietà e gruppi dirigenti “che si sono avvicendati alla guida dell’Ilva”, secondo i giudici del Riesame, “hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza dettate dalla legge e di quelle prescritte, nello specifico dai provvedimenti autorizzativi”. “Ciò – si legge – emerge inconfutabilmente circa le emissioni inquinanti rivenienti dalla singole aree dello stabilimento”. A questo riguardo i giudici rilevano, tra l’altro, che già nel maggio 2007 l’Arpa Puglia aveva reso noto che le emissioni di diossina attribuibili all’Ilva “avessero subito un decisivo incremento, passando il contributo complessivo dello stabilimento di Taranto, al totale nazionale prodotto, dal 32% dell’anno 2002 al 90% del 2005”.

In un’altra parte del provvedimento i giudici annotano: “Dalle varie parti dello stabilimento vengono generate emissioni diffuse e fuggitive non adeguatamente quantificate, in modo sostanzialmente incontrollato e in violazione dei precisi obblighi assunti dall’Ilva, nella stessa Aia e nei predetti atti d’intesa, volti a limitare e ridurre la fuoriuscita di polveri e inquinanti”. I giudici ritengono che “le emissioni nocive che scaturivano dagli impianti, risultate immediatamente evidenti sin dall’insediamento dell’attuale gruppo dirigente dello stabilimento Ilva di Taranto, avvenuto nel 1995, sono proseguite successivamente”, nonostante una condanna definitiva per reati ambientali. Inoltre, nonostante i “molteplici” impegni assunti dall’Ilva con le pubbliche amministrazioni per migliorare le prestazioni ambientali del siderurgico, i dirigenti dello stabilimento non hanno mai assolto agli obblighi.

I giudici: “L’obiettivo è uno solo: l’interruzione dell’inquinamento”
“L’obiettivo da perseguire è uno ed uno solo, ovverosia il raggiungimento, il più celermente possibile, del risanamento ambientale e l’interruzione delle attività inquinanti” hanno scritto i giudici. Nelle 123 pagine depositate in cancelleria il collegio ha spiegato che l’obiettivo è raggiungibile solo attraverso il sequestro finalizzato alla messa a norma degli impianti chiarendo che in nessun provvedimento del gip Todisco e della procura, che ha richiesto l’applicazione della misura, si legge che l’unica strada perseguibile per “la cessazione delle emissioni inquinanti sia quella della chiusura dello stabilimento e della cessazione dell’attibità produttiva”.

No alla facoltà d’uso
Il riesame, insomma, riprendendo alcuni passaggi del decreto firmato dal gip, sottolinea “la possibilità che l’impianto siderurgico possa funzionare ove siano attuate determinate misure tecniche che abbiano lo scopo di eliminare ogni situazione di pericolo per i lavoratori e per la cittadinanza”. Il collegio formato da Antonio Morelli, Rita Romano e Benedetto Ruberto, in definitiva ha dato ragione al gip e smentendo così le ultime dichiarazioni della difesa dell’azienda secondo cui nel criptico dispositivo depositate la scorsa settimana, il riesame aveva concesso la facoltà d’uso.

“Tutelare prima di tutto il diritto alla salute”
Per i magistrati non bisogna attuare “compromessi” tra diritto al lavoro e diritto alla salute considerato dalla costituzione “assolutamente preminente”, ma piuttosto di individuare quelle soluzioni che, “nel giungere alla cessazione delle emissioni inquinanti consentano di pregiudicare il meno possibile gli ulteriori interessi in gioco”. Insomma tutelare prima di tutto il diritto alla salute cercando pregiudicare il meno possibile il profitto e gli altri interessi aziendali. Il riesame lo afferma chiaramente: “Gli interventi – scrivono i magistrati – volti alla eliminazione delle emissioni illecite si rendono necessari ed improcrastinabili, oltre che per arrestare gli effetti e le conseguenze illecite dei reati” anche e soprattutto in vista “della eventuale ripresa della produzione dello stabilimento la cui attività, ove il gestore non provveda ai dovuti adeguamenti, sarebbe irrimediabilmente compromessa”. Le autorità amministrative infatti potrebbero a quel punto adottare, come previsto dall’autorizzazione integrata ambientale e dal decreto legislativo 152/2006, anche alla “revoca dell’autorizzazione e alla chiusura dell’impianto”. Adeguamento o chiusura quindi. L’Ilva scelga.

“Lo spegnimento è solo una delle scelte tecniche possibili”
Ma detto tutto questo non è un obbligo spegnere gli impianti finiti sotto sequestro, secondo il Riesame. “Semplificando e schematizzando la questione – chiariscono i giudici – va detto che non è compito del tribunale stabilire se e come occorre intervenire nel ciclo produttivo (con i conseguenziali costi di investimento). O, semplicemente, se occorra fermare gli impianti, trattandosi di decisione che necessariamente essere assunta sulla base delle risoluzioni tecniche dei custodi-amministratori vagliate dall’autorità giudiziaria: per questo lo spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili”. 

“In nessuna parte della perizia, in nessuna parte del provvedimento del gip – scrivono ancora i magistrati – si legge che l’unica strada perseguibile al fine di raggiungere la cessazione delle emissioni inquinanti, unico obiettivo che il sequestro preventivo si prefigge, sia quella della chiusura dello stabilimento e della cessazione dell’attività produttiva”. “Si desume, in definitiva – aggiungono i magistrati del Riesame – come sia stata individuata in concreto dai periti nominati dall’autorità giudiziaria la possibilità che l’impianto siderurgico possa funzionare ove siano attuate determinate misure tecnciche chea abbiano lo scopo di eliminare ogni situazione di pericolo per i lavoratori e la cittadinanza. Né va taciuto che la futura possibilità di una futura ripresa a fini produttivi nella funzionalità degli impianti, per quanto emerso, potrebbe essere irrimediabilmente compromessa, ove l’unica scelta operativa lasciata ai custodi fosse individuata nel loro spegnimento”.

Le misure personali: “Alto rischio di inquinamento delle prove”
“L’emissione di sostanze nocive alla salute della popolazione sono chiaramente in corso”. Il pericolo per i lavoratori e per i cittadini di Taranto non è assolutamente cessato. Dall’area a caldo continua l’emissione di sostanze che “causano effetti malattia e morte”. El La cessazione della produzione fino all’adeguamento quindi è l’unico strumento per impedire la reiterazione del reato. Non solo. I magistrati hanno spiegato come il rischio di inquinamento probatorio sarebbe stato elevato se fossero stati revocati gli arresti domiciliari nei confronti del patron Emilio Riva, del figlio Nicola, ex presidente del Cda Ilva, e dell’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso richiamando le intercettazioni depositate dalla procura di Taranto che hanno svelato le pressioni su organi ministeriali e regionali e la presunta mazzetta pagata al professor Lorenzo Liberti per ammorbidire una perizia.  

Il riesame ha illustrato come, nel corso degli anni, l’Ilva abbia “tralasciato di adottare i rimedi idonei ad abbattere se non proprio a evitare, le massicce emissioni di inquinanti che hanno contaminato l’ambiente circostante” oppure abbiano preferito “soluzioni inadeguate alla risoluzione del grave problema ambientale in atto. I proprietari e i dirigenti dell’Ilva – proseguono i magistrati – hanno continuato l’attività di produzione dello stabilimento di Taranto nonostante la stessa inequivocabilmente apparisse dannosa per la collettività, omettendo di impiegare tutte le conoscenze possedute”. Un aspetto che per i giudici, nei confronti degli indagati, farebbe configurare oltre alla colpa anche il dolo eventuale. Secondo i magistrati infatti “l’inerzia” di tutti questi anni “non trova giustificazione alcuna” alla luce anche delle diverse sentenze di condanna proprio ne confronti dei vertici aziendali come Emilio Riva e Luigi Capogrosso.

 Il collegio presieduto da Antonio Morelli ha escluso il pericolo di fuga per tutti gli indagati e annullando l’ordinanza nei confronti dei dirigenti Marco Andelmi, Angelo Cavallo, Ivan Dimaggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò, chiarendo che non vi sono esigenze cautelari tali da richiedere gli arresti domiciliari. Contro di loro infatti non vi sono elementi per dimostrare che fossero a conoscenza delle attività svolte dai vertici aziendali per inquinare le prove.

Prime riunioni per la “nuova” Aia
Questo per quanto riguarda la questione giudiziaria. Ma la giornata di oggi è fondamentale anche dal punto di vista politico. E’ in programma oggi una riunione, secondo quanto spiegato dal sottosegretario allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti, che serve a dare una impostazione forte sui gruppi di lavoro che dovranno affrontare i vari temi dell’Aia che fissa le prescrizioni ambientali e di salute che l’azienda deve soddisfare per continuare la produzione. Il sottosegretario ha aggiunto che “il lavoro sulla nuova Aia è stato già iniziato da tre mesi dal ministero dell’Ambiente”. Secondo De Vincenti e Clini tutta la procedura si concluderà entro il 30 settembre.

Ma non solo. “Ci sono obiettivi che prescindono dal monitoraggio in corso – ha aggiunto De Vincenti – ma che rispondono a quelle che sono le migliori tecnologie stabilite in sede europea nel marzo scorso, la vecchia Aia va quindi adeguata alle nuove prescrizioni. Poi occorrono dati di monitoraggio che ci consentano di stabilire quanto la situazione attuale è lontana da quegli obiettivi. Abbiamo ottenuto la disponibilità dell’azienda a distribuire lungo il perimetro dello stabilimento centraline di rilevamento che ci consentiranno di avere dati più attendibili”.

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