Macchine sfasciate, vetrine infrante, gente nelle piazze, polizia a presidiare con fatica centri e attività commerciali e consolari giapponesi, insieme al pericoloso rischio di una “caccia al giapponese”, come altre volte nella recente storia in Cina: la rabbia anti giapponese cinese si sta manifestando in alcune città del Celeste Impero, a seguito di quella che Pechino ritiene una provocazione, ovvero lo sbarco di giapponesi sull’isolotto di Uotsori, nell’ambito della disputa su quelle che i cinesi chiamano Diaoyu e i giapponesi Senkaku.

A Shenzhen e Canton si sono registrate le proteste più forti, con negozi e ristoranti giapponesi presi d’assalto dai cinesi, con il necessario intervento della polizia a presidiare le aree più sensibili. Il web cinese fornisce a getto continuo foto di proteste, comprese le vetrine rotte di alcuni negozi giapponesi e una protesta che sale di tono, data l’estrema forza dei nazionalismi all’interno dei due stati asiatici. Si tratta dell’ennesima diatriba sino giapponese, nel già concitato panorama delle dispute territoriali del mare cinese del sud. In questo caso però sulla vicenda pesa la tara delle relazioni tra i due paesi, cominciate ancora una volta con il ricordo dei propri morti nella seconda guerra mondiale da parte giapponese, nel sessantasettesimo anniversario, che per i cinesi sono catalogati alla voce “criminali di guerra”. In Cina tutti ricordano il massacro di Nanchino, come momento più terribile dell’occupazione giapponese, tanto che anche il recente kolossal cinese diretto da Zhang Yimou, “Flowers of war”, che doveva rilanciare il cinema cinese all’estero, era riferito proprio a quell’evento, durante il quale morirono tra i 200 e i 350 mila cinesi.

Le isolette Diaoyu o Senkaku sono un ammasso di pietre che pare, ma non è mai stato confermato, nascondano risorse di gas, ma la realtà dei fatti dice che si tratta di una mera questione diplomatica, che si gioca sul nazionalismo di entrambi i paesi, in una gara di comunicati ufficiali a ribadire la propria sovranità sulle isole contese. La situazione è precipitata la scorsa settimana quando alcuni attivisti cinesi, facenti parti di organizzazioni di Hong Kong, sono sbarcati sulle isolette, piantando la bandiera cinese e venendo arrestati dai giapponesi. La reazione cinese era stata durissima. Il portavoce del ministro degli Esteri aveva chiesto l’immediato rilascio, confermando un dato che per i cinesi è chiaro, senza fraintendimenti. Come scrisse il Global Times, giornale nazionalista di Pechino, “la Cina ha la sovranità su Diaoyu e il Giappone non ha alcuna giurisdizione sulle isole. Pechino non accetterà le misure legali prese dal governo giapponese contro gli attivisti cinesi. Devono essere rilasciati senza condizioni”. Una volta rilasciati gli attivisti cinesi, è stato il turno di quelli giapponesi, centocinquanta persone, tra cui attivisti e militanti nazionalisti, che hanno “occupato” uno degli isolotti contesi, dando il via alle proteste anti giapponesi in Cina.

Secondo quanto affermato da un portale on line che racchiude diverse pubblicazioni stampa del sud cinese, il Nanfang, più di un centinaio di persone si sarebbero riunite nei pressi del complesso che ospita il consolato giapponese a Guangzhou (Canton), urlando slogan come “il Giappone deve andarsene dalle isole Diaoyu”. A Shenzhen, i manifestanti si sarebbero invece riuniti in una piazza all’aperto, sventolando bandiere cinesi e gridando slogan, secondo Xinhua, l’agenzia ufficiale, che non ha però precisato il numero di partecipanti. Zhang Pei, uno dei manifestanti, ha detto all’Afp che la folla stava marciando verso una stazione ferroviaria al confine con Hong Kong, sottolineando come la polizia cinese sia accorsa per “scortare” il corteo. La contesa e le polemiche legate alle isole sono un evento piuttosto frequente tra Cina e Giappone: lo scorso anno nel corso dell’ennesima polemica alcuni netizen cinesi proposero un modo finale per redimere la questione, usando la consueta ironia dei milioni di utenti internet cinesi: “se nelle isole Diaoyu va Twitter, significa che è giapponese, altrimenti è cinese”.

di Simone Pieranni

Articolo Precedente

L’impero canaglia

next
Articolo Successivo

Pussy Riot: la paura di Vladimir è la nostra vera speranza

next