Come avrebbe reagito Snaporaz, il personaggio interpretato da Marcello Mastroianni nella Città delle donne di Fellini, alla notizia di un luogo riservato solo al lavoro femminile? Male, molto male. Non c’è nulla di poetico né di liberatorio dai cliché e contro cliché femministi, tanto meno di costruttivo nell’iniziativa saudita di predisporre un luogo-ghetto dove gli esseri di sesso femminile possano lavorare “in libertà”. Perché l’emancipazione femminile, nemmeno nell’oscurantista mondo islamico, può passare dalla strada, di prossima costruzione, attraverso cui le tante donne dell’Arabia Saudita raggiungeranno legalmente il posto di lavoro. Che più fisso di così non si può.

Mi chiedo quale mente femminile – di qualsiasi latitudine – potrà sentirsi rincuorata da un simile razzista e restrittivo progetto. Nemmeno la prospettiva di lavorare senza problemi può riscattare l’umiliazione quotidiana e capillare di dover sempre essere autorizzate in tutto e per tutto, per fare qualsiasi cosa, dal maschio dominante. Va peraltro sottolineato che questo progetto è doppiamente in malafede, perché in realtà nelle città saudite ci sono già donne, specialmente ostetriche e ginecologhe, che lavorano legalmente, ovviamente senza mai togliere la tunica nera (hijab) integrale che lascia scoperta solo la striscia degli occhi. La malafede risiede in un permesso che non emancipa le donne, ma dà loro solo la possibilità di produrre per la classe dirigente, che è esclusivamente maschile. E poco potrà fare il placet di partecipare come candidate alle prossime elezioni, pur essendo femmine: l’Arabia Saudita è una monarchia assoluta e le figure politiche appartengono tutte alla casta reale.

Non parliamo dunque di elezioni democratiche, né di candidati che esprimono una visione diversa da quella della famiglia reale. Pur essendo il più solido e apprezzato alleato dell’Occidente, il regno wahabita d’Arabia, che custodisce il santo Graal dell’Islam: la Mecca, è dunque tuttora lo Stato più arretrato per quanto riguarda i diritti delle donne. Abbinato al dispotismo assoluto della famiglia reale, che incarna ed esprime tutti gli esponenti principali delle istituzioni, l’emirato per antonomasia, è di fatto una prigione di lusso (la maggior parte degli abitanti indigeni, cioè i nativi sauditi, hanno un reddito abbastanza alto grazie ai proventi del petrolio) a cielo aperto. E non solo per le donne ma per quelli, tra i 27 milioni di abitanti, che provano a pensarla, anche solo un po’, in modo autonomo Se un suddito dissente pacificamente dalla politica del clan reale, la vita può diventare un inferno in terra, per poi finire con la decapitazione. Lo scorso anno e in questa prima metà del 2012, alcuni oppositori sono stati mandati a morte per reato di stregoneria. Nel terzo millennio, in uno dei luoghi più ricchi della terra – grazie alla più grande riserva di petrolio, riservata soprattutto al mercato statunitense – si puo’ dunque essere giustiziati, anzi ingiustiziati, sulla base di un’accusa che nemmeno nell’Afghanistan dei talebani sarebbe stata plausibile.

E “il polo femminile” sarà il combinato disposto più insopportabile e subdolo, di questo luogo folle dove la sharia, la legge coranica che vede nelle donne delle fattrici o al massimo delle lavoratrici di fatica, è sorpassata in illiberalità dal wahabismo: l’interpretazione più retriva dell’Islam. Ma tant’è, almeno finché la civiltà contemporanea si alimenterà di petrolio e di armi: in Arabia Saudita ci sono quelle basi americane che permettono agli Stati Uniti di mantenere più che un piede sul corpo mediorientale.

Il ghetto delle donne dovrebbe diventare operativo fra circa tre d’anni nella municipalità orientale di Hafuf. La richiesta di costruirla è stata sottoposta all’Authority saudita per la proprietà industriale (Modon) e si stima possa creare 5mila posti di lavoro, soprattutto nei settori tessile, alimentare e farmaceutico e ospitare imprese che diano lavoro solo alle donne e imprese amministrate da donne. Così nel 2015 le donne saudite, che non possono guidare, pena le bastonate immediate dei guardiani della morale e un successivo processo con multa salata annessa, potranno lavorare senza disgustare il mondo maschile wahabita. Ma dovranno essere portate al lavoro comunque dal padre, da un fratello o dal marito. Altrimenti giù manganellate.

Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2012

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