L’ultimo caso ha riguardato Rosario Tassero, in arte Rosario Miraggio, idolo delle ragazzine e vera e propria icona del pop neomelodico campano. Prima di salutare il pubblico di Gragnano, accorso in piazza Aubry per la festa patronale della Madonna del Carmelo, il cantante ha letto un bigliettino che qualcuno gli aveva passato da dietro le quinte: “Dedico la prossima canzone a Nicola ‘o fuoco, a cui auguro di poter presto riabbracciare tutti gli amici”. Nulla di male, se non fosse che Nicola ‘o fuoco, al secolo Nicola Carfora, è all’ergastolo da tredici anni per l’omicidio di un imprenditore. Così, mentre sulla piazza scendeva il gelo, la band dal palco attaccava con le note di “Io canto a te”, successo giovanile dell’artista napoletano. “Abbiamo solo letto un bigliettino, come ci è già capitato migliaia di volte”, ha dichiarato al Mattino il manager di Miraggio. “Non sappiamo neppure chi è Carfora, nessuno ha avuto l’intenzione di elogiare la malavita organizzata”. Sarà, ma quella della dedica ai boss detenuti o latitanti non è una novità sotto il Vesuvio.

Certo a Crispano non potevano non sapere, ad esempio, chi fosse Antonio Cennamo, boss della provincia nord di Napoli che nel 2004 mandò da Poggioreale una lettera di ringraziamento per le scenografie a lui dedicate in occasione della annuale Festa dei gigli. La ‘paranza’ dei Tigrotti, di cui Tanuccio o’ Malommo era stato prima cullatore e poi padrino, aveva pensato di omaggiare il ras con una gigantografia e una scritta: “Tutto questo è per te. Grazie”. E lui, dal carcere, volle ricambiare e rassicurarli sul suo stato di salute. “Vi assicuro che sono in ottima forma, e non sono certo quei menzogneri con le loro menzogne ad abbattermi. Vivo la mia libertà attraverso i miei figli”, recitava la missiva che un membro della paranza lesse in pubblico. Non fece una piega il parroco del paese, che poco prima aveva benedetto il giglio del boss, e neppure il sindaco Carlo Esposito, in piazza durante la lettura pubblica. Non potevano però far finta di nulla i carabinieri, che prima ordinarono la rimozione di gigantografia e striscione, e poi avviarono le indagini che portarono allo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose, con tanto di citazione dell’episodio nella sentenza del Consiglio di Stato. Il che, peraltro, non è servito a scoraggiare Cennamo ed Esposito: il primo, ormai a piede libero, nel 2006 salì sul palco del giglio per salutare la sua paranza e ammonire “le malelingue e chi ci vuole male”; il secondo nel 2010 si è ricandidato col Pd, e oggi guida di nuovo il Comune forte del 76 per cento delle preferenze.

E la festa? Guai a chi la tocca: sotto al Vesuvio chi ha provato a sospendere anche solo per qualche anno manifestazioni più o meno religiose gestite dalla malavita ha dovuto fare i conti con la rabbia non solo dei clan, ma anche dei cittadini. Troppo forte l’amore popolare per santi e madonne, troppo alta la posta in gioco per i camorristi. Sono loro, spesso, che raccolgono fondi imponendo un ulteriore pizzo ai commercianti, loro che gestiscono celebrazioni e festeggiamenti presentandosi come ‘benefattori’, gli unici in grado di regalare momenti di divertimento alla gente e di farsi garanti anche solo per qualche ora della pax mafiosa. È il panem et circenses degli antichi romani rivisitato in chiave moderna e criminale. Con la benedizione della Chiesa, che troppo spesso preferisce non intervenire e sorvolare. Salvo rarissime eccezioni. È il caso, ad esempio, del nuovo vescovo di Castellammare di Stabia, don Franco Alfano, che ha vietato la sosta della statua del santo patrono Catello sotto la casa del boss “Battifredo”. O di don Cristoforo Lucarella, parroco di San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli, costretto addirittura a barricarsi in sagrestia scortato dalle forze dell’ordine per evitare l’aggressione della folla: aveva osato opporsi alla processione di San Giovanni quando i clan imposero che la statua uscisse dalla chiesa col lutto al braccio per la morte di due affiliati. Dodici anni dopo la processione è tornata, stavolta senza portatori né fasce nere al braccio. Ma con una scorta degna di un capo di Stato: una ventina di uomini della protezione civile, due camionette della celere e una volante della polizia. Uno scenario di guerra che rischia di ripetersi tra qualche settimana a Barra, dove da anni la festa dei gigli è appannaggio dei clan della zona. Dopo le polemiche dello scorso settembre, quando il parroco benedisse i gigli poco prima che i padrini si presentassero alla folla in abito bianco e a bordo di una Rolls Royce da collezione, il prefetto di Napoli Andrea De Martino ha promesso il pugno duro: “La festa dei gigli non avrà più la presenza della camorra. Il comune di Napoli ha adottato un regolamento per proteggersi dalle infiltrazioni camorristiche”. Che prevede, tra l’altro, la creazione di una commissione comunale che vigili sulle infiltrazioni e il divieto per i pregiudicati di far parte dei comitati organizzatori. Chissà che stavolta i padrini non siano costretti, finalmente, a farsi da parte.

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