Lo studio non è più un diritto: con le nuove norme fissate dal maxiemendamento 95/2012 sulla spending review, approvato dai due rami del Parlamento, il governo Monti, sulla scia già tracciata dagli esecutivi Berlusconi, esce allo scoperto sulla politica universitaria, tagliando ogni possibilità di investimento verso gli Atenei (già penalizzati per la drastica riduzione delle risorse destinate al mondo della ricerca) e penalizzando l’accesso degli studenti con l’inasprimento delle tasse.
Una manovra palesemente incostituzionale, che contraddice non solo il dettato dell’art. 34 Cost. (“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. (…)”), ma anche lo stesso art. 33, per quanto attiene al diritto all’accesso ed il carattere “pubblico” degli stessi atenei, riconosciuto dalla stessa Consulta ma vanificato con una serie di provvedimenti che hanno portato l’università italiana ad imporre le terze tasse più salate d’Europa.
Con la spending review si arriva a modificare il tetto del 20% nel rapporto tra la contribuzione degli studenti e il Fondo di finanziamento ordinario, con un meccanismo che tende a penalizzare i fuoricorso (penso, ad esempio, agli studenti lavoratori) e le fasce di reddito superiori a 40mila euro, con aumenti che rasentano il 100%. Il meccanismo individuato dal DL 95/2012 è realmente perverso: la norma, infatti, tende a “sanare” le numerose denunce degli studenti sui rincari operati dal 55% degli Atenei italiani che avevano, di fatto, sfondato il tetto del 20%. La spending review va perfidamente oltre, sconvolgendo il rapporto studenti/fondo di finanziamento ordinario e scorporando dal conteggio oltre agli studenti fuoricorso anche quelli extracomunitari.
Una manovra beffarda, ideata per scaricare sugli studenti i tagli operati in questi ultimi anni al finanziamento ricevuto dallo Stato, banalizzata dallo stesso ministro Profumo che etichetta i fuori corso come un peso per l’università italiana, senza considerare che, proprio per gli scarsi investimenti e l’alta tassazione, il 50% degli studenti è costretto a lavorare per pagarsi gli studi.
Ma c’è di più: in alcune Regioni, come la Campania, la stangata è aggravata dall’aumento, previsto sin dal prossimo anno accademico 2012-2013, della Tassa regionale per il diritto allo studio, prevista dai decreti attuativi della 240/2010 (Riforma Gelmini) e suddivisa per fasce di reddito, con un minimo di 140 euro, contro la precedente tassa unica di 62, con un incremento pari al 126%.

Siamo al saccheggio dell’Università pubblica, con provvedimenti che mettono in seria difficoltà il diritto allo studio, con un costo che contraddice lo spirito costituzionale e il rischio reale di una perdita di studenti meritevoli, ma non in condizioni di mantenersi agli studi. Inoltre, la norma è discriminatoria per gli extracomunitari, per i quali gli aumenti diventano realmente incontrollabili.
 
A conti fatti dal saccheggio dell’Università dovrebbero giungere nelle casse dello Stato circa 600 milioni di euro, con un aumento (anche in considerazione dell’incremento della tassa per il diritto allo studio) stimato in oltre 500 euro per studente. La tassazione media raggiungerebbe, quindi, i 1554 euro.
 
A che prezzo? L’Italia è già abbondantemente penalizzata sul fronte della competitività internazionale, la ricerca zoppica e la miopia di governo, pronta a racimolare qualche briciolo oggi invece di preservare la gallina domani, continua a minare le basi degli unici settori sui quali poter mettere solide basi per il futuro. Annullando di fatto le legittime aspirazioni delle giovani generazioni.
 
Certo, non siamo in India, Paese che ha costruito la sua competitività mondiale proprio investendo in università e formazione, ma in Italia, invece di riorganizzare gli Atenei, riformandone struttura e organizzazione, si da l’affondo definitivo, facendo ricadere le responsabilità dello sfascio sugli studenti.
Un ulteriore segno di un’arretratezza culturale, che richiede un’immediata, improcrastinabile e radicale inversione di tendenza.
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