Da quando Shakespeare ci ha lasciato in eredità i suoi capolavori, molte e variegate sono state le modalità d’interpretarli. Ma la lettura del “Re Lear” di Michele Placido (regista assieme a Francesco Manetti), andata in scena alla Versiliana, è davvero originale e garbatamente distopica. Per quella straordinaria capacità che hanno i capolavori della letteratura universale di adattarsi ai tempi e di essere sempre attuali, il “Lear” di Placido, re barbone allucinato e confuso, può aggirarsi in una terra desolata da periferia industriale, dove emergono le macerie di un mondo perduto.

Tra rifiuti, frammenti d’immagini e reperti di civiltà, spicca una gigantesca corona, simbolo di un potere regale abbattuto, non già da forze predominanti, quanto da una sciagurata scelta personale, aggravata dalla vanità paterna. In questa scenografia di grande efficacia (di Carmelo Giammello), capace di trasmettere allo spettatore l’angoscia per il mondo degradato, i personaggi shakespeariani che accompagnano Lear verso la sua ineluttabile fine assumono le sembianze di figure isolate, incerte, persino amorali, in cui riemergono, a tratti, barlumi di umanità e calore.

Perché il mondo che Placido mette in scena è in preda al disordine, provocato dall’incauta decisione del re di dividere il suo regno tra le due figlie Goneril (Margherita Di Rauso) e Regan (Lidia Gennari), avide adulatrici, escludendo la più sincera Cordelia (Federica Vincenti). Una decisione che sarà causa di pazzia (metafora di un disordine sociale), depravazione, devastazione e morte.

Bisogna riconoscere che questa rilettura in chiave post-moderna, pur nella stilizzazione degli elementi simbolici e nella traduzione del linguaggio, anche scenico, rispetta in pieno il senso e le intenzioni di Shakespeare.

“Re Lear” è la tragedia della modernità incipiente, intesa come mondo governato da leggi e norme etiche. Scritta nel 1605, è un monito contro la rottura dell’equilibrio “naturale” rappresentato dall’ordine costituito: la perfezione della piramide sociale al cui vertice sta il sovrano viene sconvolta da un atto imprudente.

La rinuncia del sovrano, in cui confluisce l’unità dello Stato e del popolo che in lui si riconosce, come teorizzerà Hobbes solo pochi anni più tardi nell’efficace costruzione del “Leviatano”, equivale alla dissacrazione del principio d’autorità e al conseguente crollo di un mondo. Genera il caos. Poiché il futuro, nell’intuizione shakespeariana che guarda oltre l’età elisabettiana ormai al crepuscolo, è il mondo della modernità, che ha bisogno di certezza del diritto, riconoscimento dell’autorità sovrana e dell’unità nazionale.

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