In quest’estate da incubi veri o presunti (la discesa dell’euro e la ridiscesa, in campo, di Berlusconi) deve rallegrare la notizia della riapertura, nella scuola elementare di via Paravia, a Milano, della classe prima, l’anno scorso negata per via delle farneticazioni Gelmini sulla percentuale di stranieri in classe. Grazie all’intervento politico della giunta Pisapia, nei nostri auspici, e alle pressioni sul provveditore lombardo Dott. Petralia è arrivata la “concessione” di aprire una classe prima nonostante tra i diciotto iscritti ben sedici risultino gli alunni stranieri. Si tratta per lo più di bambini nati in italia e già linguisticamente integrati, di seconda o terza generazione, che si vedono finalmente riconosciuto il diritto di frequentare la scuola pubblica di quartiere.

Ma ci sarà davvero da gioire per il riconoscimento di un diritto avvenuto per concessione? O piuttosto questo concedere nasconde semplicemente la mancanza di una regola precisa e, soprattutto, la mancanza di una strategia ufficiale sul come affrontare l’integrazione degli alunni stranieri?

Lo stesso provvedimento della Gelmini può anche essere letto come discriminatorio e razzista, dazio pagato al populismo leghista, ma indubbiamente affronta un aspetto importante e ineludibile, cioè quello di formare classi possibilmente bilanciate ed evitare la formazione delle cosiddette classi ghetto.

Forse l’anno scorso, all’annuncio dell’eliminazione della prima multietnica, anche il Trota ha festeggiato esibendo padanamente i suoi diplomi fasulli; e forse quest’anno altri hanno sorriso, me compreso, per la riattivazione della classe. Tuttavia, a pensarci bene, da questo scontro tutto ideologico non è uscita una soluzione accettabile, un percorso da seguire, una volontà programmatoria. Riattivare la classe è stato sanare un sopruso, d’accordo, ma si tratta comunque di una classe quasi esclusivamente composta da figli di immigrati stranieri, non certo l’ideale soluzione per attivare un percorso di integrazione.

Bisognerebbe, credo, per arrivare a dei risultati soddisfacenti lavorare sui bacini d’utenza delle scuole, cercando preliminarmente di prevedere la composizione della popolazione scolastica di un plesso in base alla situazione socio-urbanistica della zona servita. Un lavoro lungo e serio che punti a distribuire virtuosamente gli oneri e gli onori del percorso integrativo riconoscendone l’importanza strategica.

L’impressione è, invece, che, nonostante la percentuale di studenti stranieri sia cresciuta esponenzialmente negli ultimi vent’anni e che sia destinata a crescere, la politica italiana non abbia ancora metabolizzato la situazione e che stenti nell’affrontare questa occasione epocale. Si preferisce procedere, come del resto in tutto ciò che concerne le politiche migratorie, con provvedimenti tappabuchi, con sanzioni demagogiche, con soluzioni all’italiana, con sanatorie mascherate: mai con un’impostazione strategica minimamente lungimirante.

In Francia gli alunni “non francofoni” vengono atomaticamente inseriti in un percorso di integrazione delle abilità linguistiche che le scuole devono attuare, un percorso non solo previsto ma regolarmente finanziato dallo stato. In Italia tutto viene lasciato alla buona volontà e all’intraprendenza delle singole scuole che, all’interno del proprio bilancio o attraverso l’attivazione di progetti, possono attivare corsi di potenziamento linguistico. Tra l’altro, spesso, il dirottamento di risorse, umane o finanziarie, verso l’integrazione di alunni stranieri finisce, all’interno delle singole scuole, per privare delle risorse necessarie altre necessità (ad esempio dedicando la funzione obiettivo all’integrazione non la si può impiegare nell’informatizzazione della scuola).

Non c’è da stupirsi, dunque, se (il rapporto nazionale della Fondazione Ismu, patrocinato dal Ministero dell’Istruzione) il numero dei bocciati tra gli studenti stranieri iscritti nelle scuole italiane risulti triplo rispetto a quello degli italiani: la politica paludosa italiana ha prodotto e sta producendo le sue vittime.

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