Devi farci l’abitudine. La postmodernità va così. È paradossale.
Quando erano piccoli e tu eri una madre giovane, ti sentivi responsabile della loro felicità, del loro benessere. Ginocchia sbucciate, sconfitte scolastiche, prime solitudini, amicizie non corrisposte, paure. Accorrevi. Consolavi. Curavi.
Era quando la vita stava ancora in ordine.
Passano gli anni e diventa sempre più difficile. I dolori dei figli adulti ti spaccano il cuore, peggio di prima, perché sono dolori più grandi e più tristi, eppure non puoi farci niente. E allora il dolore dei figli diventa la misura della tua crescente impotenza. Come si sente una madre di 75 anni quando suo figlio finisce senza casa, senza un soldo, senza niente? Questo è successo a G.d.d.: il figlio, artigiano, 50 anni, era pieno di debiti. Equitalia, sezione recupero crediti. È uno che non ce l’ha fatta, uno dei tanti. Uno delle migliaia di giovani uomini e donne stritolati dalla crisi economica. Uno che ci ha provato e ha fatto un passo falso (si racconta che finì in carcere per tentata estorsione nei confronti del vicino che aveva comprato la sua casa messa all’asta), o non ha fatto il passo giusto. Ma chi è, oggi, che ce la fa? Non certo i migliori. Bisogna avere i santi in paradiso. Bisogna avere famiglie forti dietro.
Così una sera guardi tuo marito negli occhi, da un lato all’altro del tavolo, e non hai più niente da dire. Avete cenato insieme per decine di anni, avete affrontato malumori, problemi, conti che non tornano, noia, ripetizione, malattie. E adesso, che cos’è questo silenzio? Le vite lunghe sono un allenamento formidabile, i matrimoni lunghi sono patti di solidarietà, complicità, sostegno. Si litiga spesso nei momenti difficili, ci si tira addosso la responsabilità degli errori, poi si trova una soluzione, una toppa, una concausa, si spartiscono le colpe e ci si tira fuori. Questo quando nei guai ci sei tu, ci siete voi, non quando nei guai c’è tuo figlio. Allora può succedere che scenda sulla tavola quel silenzio freddo. È una stanchezza terminale, un senso di sconfitta, il tradimento delle attese. Dunque neanche questo sono riuscita a fare? Non sono riuscita a mettere al riparo, quest’essere che io ho messo al mondo. E domani, come esco per le strade del paese? Come faccio a farmi bella di lui, a farlo amare… perché c’è questo dietro le innocenti vanità materne e paterne, sulle carriere dei figli, sui loro amori, sulle loro qualità, il bisogno di costruire il rispetto e l’amore degli altri attorno a loro. È un sentimento complicato. Chi ha dei figli lo conosce.
Può portare fino alla decisione di togliersi la vita, la sconfitta di tuo figlio? Sì. La crisi economica non è un titolo di giornale. Dietro i tecnicismi e le parolette inglesi, dietro le notizie sulle fabbriche che chiudono, dietro le riduzioni del personale per cause oggettive, c’è la vita di migliaia di persone. La vita quotidiana, materiale, affettiva. Dietro la necessità di “tutelare i crediti vantati dagli enti impositori”, come scrive Equitalia in una precisazione travestita da condoglianza, mettendo all’asta una casa, c’è chi in quella casa ci viveva. Ci sono suo padre e sua madre. La vergogna e la disperazione covano dietro i digrammi, le percentuali, i numeri. Forse per questo, nessuno ha pensato a una messa in scena. A un omicidio travestito da suicidio. Colpevole magari il figlio stesso. Forse è un’ipotesi umanamente intollerabile. O forse è proprio quel dettaglio straziante, dei due corpi senza vita, ma abbracciati.
Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2012