I social media sono strumenti che cambiano quotidianamente, così come cambiano i social network, cioè le relazioni tra le persone che utilizzano questi strumenti per gli scopi più disparati.

Per questo motivo nessuno si può dire davvero social media specialist, una dicitura (pur)troppo in voga tra i tecnici della comunicazione online. Meglio essere fieramente amatori, in continua esplorazione, senza ricette pronte e senza annunciare di avere soluzioni definitive che valgano per periodi troppo lunghi.

Un esempio: Facebook d’estate è diverso da Facebook d’inverno. Aumentano le spiagge, i piedi sulla sabbia, l’entusiasmo per il primo bagno, il terzo mojito, il quinto party, il decimo filtro di Instagram. Chi è in ufficio bestemmia chi è in vacanza e chi torna dalla vacanza riprende a bestemmiare non appena rimette piede a casa o in ufficio. Insomma, da maggio a settembre quasi tutto ruota attorno alle vacanze: vere o presunte, brevi o lunghe, locali o esotiche, iniziate o finite. Se ne parla. O meglio, il mittente condivide, il destinatario guarda più o meno pigramente, clicca su ‘mi piace’ e si prepara al momento in cui condividerà a sua volta.

All’interno di questa gigantesca condivisione di melanina c’è un aspetto su cui però mi piacerebbe soffermarmi, anche perché non riesco a comprenderlo pienamente. Mi capita infatti spesso di leggere aggiornamenti che potrebbero essere riassunti in una frase che ho letto ieri:

“Vado in ferie, con Facebook ci rivediamo a settembre” 

Premetto che una frase del genere suona a me estranea: i social media per quanto mi riguarda sono un elemento di continuità con la propria vita. È fisiologico aggiornare meno quando si è lontani dall’ufficio o dal computer, non capisco l’annuncio del futuro non-aggiornamento. Devo dunque sforzarmi di interpretare. E per farlo pongo due interrogativi.

A. I social media possono diventare un ‘lavoro’?  

Se un utente esprime il bisogno di comunicare l’intenzione di spegnere la propria identità social, esprime l’impossibilità di tenerla accesa quando si è in vacanza. Tra smartphone e tablet, questa impossibilità è sempre meno una necessità e sempre di più una scelta precisa. Bisognerebbe verificare se questi annunci solenni poi corrispondono davvero al black-out, ma questo tipo di intenzionalità è già un elemento di riflessione. Evidentemente la gestione della propria faccia su Facebook ha un costo: cognitivo, emotivo, semplicemente di tempo da dedicare. O la fatica potrebbe essere legata non tanto e non solo ai social media, quanto all’essere connessi in generale. Se si è davanti a un dispositivo tutto il giorno, per lavoro e/o per svago, si può sentire il bisogno di staccare anche da questo tipo di quotidianità quando si è in vacanza.

B. Ci stancheremo di condividere?

Questa domanda, in realtà, ne nasconde un’altra molto più profonda, che richiederebbe un’analisi dedicata: “Perché condividiamo?“. Per il momento è interessante provare a immaginare i nostri comportamenti di accesso ai social media fra due o tre anni. Se su Twitter, che vive molto di più di atomi informativi, l’energia è rinnovabile (i fatti di attualità, gli articoli di giornale, i post), su Facebook la situazione potrebbe evolvere in modo meno lineare. Dopo aver condiviso tutte le cose della mia vita, gli amici, gli amori, gli animali, il cibo, i libri, le emozioni, cosa mi resta? C’è sempre qualcosa, qualcos’altro da raccontare, o alla fine finiranno i contenuti autobiografici inediti, originali, unici? Ci sarà la volontà di condividere per due volte la stessa cosa, anche a distanza di tempo, o ci sentiremo ripetitivi, persino banali, nel farlo?

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