Se li ricorda uno ad uno i suoi 400 pazienti ammalati di linfoma. Le storie, i nomi, la loro indole. Perfino il carattere. Per lei non sono mai un numero. Anche perché nella città più inquinata d’Italia, fino a poco tempo fa non c’era un registro tumori. “Una vergogna”, è l’unica parola dura che usa Barbara Amurri, 56 anni, gli ultimi dieci trascorsi tra le mura del reparto di Ematologia dell’Ospedale Moscati di Taranto, che ha fondato nel 1993 insieme all’allora primario Patrizio Mazza, ora consigliere regionale dell’Idv. Quando torna a casa, nel quartiere San Vito, quartiere della marina, e il vento gira, “è come respirare direttamente con la canna del gas in bocca”. Come si può vivere lì? L’accento marchigiano cede alla cadenza dolce delle vocali aperte del tarantino solo quando pronuncia la parola “casa”. E si capisce che Taranto è la sua “missione”, come quelle che ogni estate porta avanti in Sudamerica. Perché non va via? Sorride. “É la mia vita. La mia battaglia culturale, la mia trincea, la mia responsabilità, che mi porto dietro 24 ore su 24. Non voglio tirarmi indietro. Qui muoiono come mosche e vedono morire i loro figli, eppure cercano una ‘sistemazione’ all’Ilva o all’Eni o alla Cementir anche per loro. É la dannazione di questa terra: il non pensare al futuro. Si vive cercando di allontanare il problema, poi domani il problema torna, ma l’importante è re-spingerlo adesso”.

L’Italsider prima, l’Ilva poi, sono state per gli operai una fonte di benessere reale. “Se uno aveva voglia di lavorare, poteva fare anche tre o quattro turni di seguito e con gli straordinari venivano fuori stipendi più alti di quello un primario, di un professionista. Dov’erano allora i sindacati, l’Ispettorato del lavoro? Chi agiva in armonia con la società riversando nel mare, la notte, i veleni?”. Poi quel benessere ha cominciato a vacillare, perché la diossina, il pcb, hanno la capacità – spiega – di agire a livello cromosomico, per cui la dottoressa Amurri e il suoi colleghi hanno cominciato a registrare un dato inquietante: sono i figli e i nipoti degli operai ad ammalarsi sempre più spesso. L’Ilva è entrata dentro di loro fino a divenirne parte.

Enza, è la prima bimba ad ammalarsi di leucemia. Abitava nel quartiere Tamburi, a 500 metri dalla fabbrica. Aveva cinque anni e l’età di sua figlia, che portava spesso in ospedale, nel difficile gioco di equilibrismi di tutte le donne per conciliare il lavoro e la famiglia. Enza era debole e non riusciva a tirarsi su per le scale, troppo piccola anche per arrivare al passamano: “Non ti preoccupare, tu sei sana, come me. Anch’io ho fiatone – la incoraggiava la sua compagna di giochi – Un gradino alla volta e ce la fai”. Un gradino alla volta. É la rivoluzione culturale che Amurri cerca di incuneare in un background culturale fatto di rassegnazione: “Quando sanno di essere ammalati, soprattutto gli anziani, danno per scontata la morte. Invece ci sono degli obiettivi intermedi che è giusto raggiungere, per migliorare la qualità della vita”. I più giovani dei suoi pazienti, cresciuti sotto un cielo plumbeo dai fumi, hanno come obiettivo intermedio la bellezza, l’armonia. Un ragazzo appena saputo del sequestro ha pubblicato su facebook una foto dell’Ilva trasformata in un parco dei divertimenti: dalle ciminiere uscivano fuochi d’artificio. Una foto che ha strappato più di un applauso in reparto.

L’obiettivo intermedio di Paola, 35 anni, è decorare torte. Si è ammalata di linfoma di Hodgkin dopo aver avuto il suo primo bimbo: “Proporrei alla cittadinanza di fare un giro al padiglione oncologico e di ematologia dell’ospedale Moscati. Siamo tutti preoccupati per questi lavoratori, ma io come tanti ho pagato e stiamo pagando a caro prezzo le atrocità di quella che per decenni è stata una forma di pseudo ancora di salvezza per tante famiglie tarantine”. Leandra è “il nostro orgoglio”, afferma trionfante Amurri. A 14 anni è stata curata da una leucemia che non lasciava scampo. Ora ha 24 anni, il 16 giugno si è sposata.

Di chi invece non ce l’ha fatta, la dottoressa preferisce non parlare. “Se ne cito uno mi sembrerebbe far torto agli altri”, sembra parlare di eroi, di caduti in guerra cui si deve memoria. Però una le è rimasta nel cuore. Gianna. Aveva 19 anni, era sola. Una situazione famigliare drammatica. Rimane incinta e subito dopo scoprono la malattia. Gianna decide di tenere il bambino, per cui viene sottoposta ad una chemioterapia mirata in base allo sviluppo del feto. “Era una ribelle, una scugnizza”, ricorda Amurri. “Mi prendeva in giro, saltava gli appuntamenti, diceva le bugie sulle medicine, che non prendeva. Io interpretavo questa spavalderia come un’espressione della sua vitalità, la sua anima che reagiva”. Poi il bimbo è nato, a sette mesi. E Gianna dopo poco se ne è andata, quando il suo fisico non ha più retto alle intemperanze della sua anima. É accaduto due anni fa. Ma il ricordo brucia, sotto le polveri di Tamburi.

di Maria Luisa Mastrogiovanni
da Il Fatto Quotidiano del 29 luglio 2012

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