“Sia ben chiaro, qui nessuno respinge i profughi siriani”. È categorico Hetin Cobatir, portavoce dell’Unhcr turca, l’Alto commissario per i rifugiati dell’Onu, che tiene a precisare la notizia delle “frontiere chiuse” diffusa negli scorsi giorni. Un annuncio che ha creato più di un malinteso: l’interdizione del passaggio infatti è a soli scopi commerciali, i civili continuano ad arrivare a centinaia dalle regioni di Idlib e, soprattutto, Aleppo. In totale sono 42.200 i profughi siriani in Turchia, ospiti in sette campi della Mezzaluna rossa nel Sud del Paese nella regione di Hatay. “Abbiamo previsto l’apertura di tre nuove tendopoli per accogliere almeno altre 10mila persone”, aggiunge Cobatir.

E in effetti basta arrivare a uno dei check point più vicini ad Aleppo, che dalla Turchia dista solo una trentina di chilometri, per vedere file di famiglie in fuga. A Reihanly poi c’è un passaggio sicuro, la parte siriana della frontiera, infatti, è Bab al Hawa uno dei tre valichi controllato dal Free Syrian army. Sotto il sole cocente di mezzogiorno incontriamo una famiglia di Hamdanie, quartiere periferico di Aleppo affacciato sull’autostrada per Damasco. “Nella nostra zona è facile bombardare – spiega la capofamiglia, una donna sulla sessantina – ci sono delle strade ampie dove passano anche i carri armati”. L’anziana risponde distrattamente: con una mano regge il telefono, con l’altra coordina invece il marito e il genero mentre scaricano decine di valige e pacchi dalla propria auto. Dalla quantità di roba sembrano intenzionati a rimanere in Turchia per un anno: “Sono fortunata perché mia madre era turca – prosegue – quindi ho la doppia cittadinanza”. Attaccati alle sue gambe ci sono una bambina di dieci anni e un piccolo di sei con lentiggini e capelli rossi. “I miei nipotini!”, sorride con orgoglio. Contrariamente ai profughi provenienti dalla campagna di Idlib, scuri di carnagione e vestiti con abiti dai colori sgargianti, chi viene da Aleppo si distingue per la carnagione più chiara e gli abiti urbani, soprattutto delle donne, che indossano trench beige e hijab di seta. “Tanta gente del nostro quartiere che non sa dove ripararsi – prosegue – di giorno campeggia nelle campagne vicine, di notte invece torna a dormire a casa”.

Ma gli anziani sono molto restii a muoversi. Aisha, 80 anni, di lasciare casa sua nel popolare quartiere Shaar non ci pensa proprio: “Sono quattro giorni che sparano sotto casa, stamattina hanno iniziato alle otto e hanno finito a mezzogiorno, ma io da qui non mi muovo”, dice rispondendo coraggiosamente al telefono. La donna vive sulla strada principale del Shaar, un enorme agglomerato urbano che conta più di 200mila abitanti, a cinque chilometri dall’aeroporto di Aleppo. Si tratta di una zona sensibile, sia per la sua posizione strategica che per il fervore sunnita dei suoi abitanti che nascondono combattenti del Free syrian army nelle proprie cantine. “Grazie a Dio sono sana e nonostante la mia età sto facendo il Ramadan – prosegue Aisha – mi dispiace solo di non poter cucinare cose buone per i miei nipoti, dopo il tramonto mangiamo solo pane e olive”. Coi negozi chiusi e i forni che cercano di lavorare 24 ore su 24, la fila per il pane conta ormai migliaia di persone. Ad avere lo stesso problema anche gli abitanti di Salaheddin, da cui Mamudh è fuggito con moglie e quattro figli in direzione di Al Shdaide, nel centro storico di Aleppo dove vivono oltre ai sunniti anche molti cristiani e armeni. “Sono al sicuro da mia sorella Samira – racconta al telefono – Qui non si combatte perché le vie sono troppo strette, l’esercito non può entrare”. Nel dedalo di stradine in pietra nel cuore medioevale di Aleppo, in effetti, fanno fatica a passare due persone a braccetto. A rischiare maggiormente quindi sono gli abitanti delle periferie attaccati sia da terra che dal cielo. Le vie di fuga più prossime al momento sono le campagne intorno alla città, ma per sentirsi veramente al sicuro al non resta che oltrepassare il confine. A pochi chilometri dall’inferno, c’è un’inverosimile isola di pace chiamata Hatay.

di Susan Dabbous

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