Una donna vestita di nero, con il capo chino nascosto sotto un velo, nero anche esso, entra nel piccolo cimitero di paese, si avvicina alla tomba della figlia. La mano impugna un martello, un attimo di esitazione, e con violenza bestiale si accanisce sulla tomba, spacca il marmo dove è inciso il nome, strappa la fotografia di un’adolescente che sorride alla vita. In dialetto stretto inveisce contro la sorte, battendosi le mani al petto.  

La disperazione di una madre che ha perso l’amata figlia di diciasette anni? No, la madre si dispera di avere per figlia una “fimmina con lingua longa e amica degli sbirri” come si mormora in tutto il paese e nessuno osò andare al funerale di Rita. Neanche il suo codardo fidanzato.

Non andò neppure sua madre, cuore di ghiaccio e vetriolo che scorre nelle vene, l’aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia ribelle aveva “disonorato” la famiglia, le procurava imbarazzo a Partanna, villaggio del trapanese di scarse 12mila anime con sito archeologico che risale all’epoca paleolitica. Ma la storia più recente del paese l’ha fatta Vito Atria, potente boss locale, fino a quando una cosca rivale decide di farlo fuori. 

Alla morte del padre, Rita, appena undicenne, si lega al fratello Nicola, boss in erba, da lui cerca affetto e protezione. Nel giugno 1991 anche Nicola è trucidato dalla mafia. A questo punto sua moglie Piera Aiello decide di collaborare con la giustizia. Cinque mesi dopo anche Rita, seguendo l’esempio della cognata, chiede un incontro con il giudice Paolo Borsellino. Le loro deposizioni consentono di fare arrestare diversi mafiosi e di avviare un’indagine sull’assai discusso Vincenzino Culicchia, per trent’anni sindaco, padre/padrone di Partanna. Il giudice Borsellino “adotta” la picciridda Rita, la ragazza trascorre molto tempo con lui e la moglie, come una di famiglia. Quale migliore rifugio dall’orrore mafioso? Rita, di base, vive sotto protezione a Roma, indirizzo segretissimo. 

Una settimana dopo la strage di via d’Amelio, Rita si uccide lanciandosi dal settimo piano. Aveva di nuovo perso ogni affetto, ogni senso di famiglia. Il suo unico punto di riferimento. Non ce l’ha fatta a ricominciare daccapo. Questo il suo laconico messaggio lasciato vent’anni fa. Sembra scritto ieri.

Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.

Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi.

Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci.

Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta. Rita 

Una domanda per tutti, per me stessa in primis: quanti hanno mai sentito il nome di Rita Atria? Per la prima volta ho letto attonita la sua storia sul Corriere di ieri riportata dal collega Paolo Di Stefano. Non si sono ancora spenti gli echi delle commemorazioni  per il ventennale delle stragi di Capaci e di via d’Amelio e non una parola è stata spesa per ricordare il sacrificio di Rita. Sacrificare (dal lat. composto di sacrum efacere) significa, letteralmente,  rendere sacro.  Come in una tragedia greca, Rita si è immolata per restituire onore a uno Stato svergognato dall’incapacità di prevalere sulle cosche, inetto nel proteggere anche i suoi più fedeli servitori, come il giudice Borsellino. 

Com’è possibile che per venti interi lunghi anni, un tale gesto sia passato inosservato…?  

Sono felice che la piazza centrale di Partanna sia stata dedicata a Falcone e Borsellino. Non lontano dall’imponente villa Macallè, la casa dove, tra gli agi, è vissuta Rita, la casa del boss mafioso tanto rispettato e riverito. Ma una lapide alla memoria di Rita non stonerebbe nella stessa piazza.  

Invece, lasciare al cimitero la sua tomba in stato d’abbandono, per vent’anni, senza un nome, senza una targa è più che vergognoso. Il nome di Rita andrebbe gridato in ogni angolo della Sicilia.  Sembra invece che se ne voglia cancellare ogni traccia dalla memoria collettiva, anziché ricordarlo alle nuove generazioni. Perché qui la  mentalità omertosa fa ancora da padrona. Testimone di mafia era Rita, secondo l’austero protocollo giudiziario. Nulla di più. 

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