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Patti Smith e la Casa del Vento nella Basilica di San Francesco (Foto: Luciano Scanzi)

Un’ora di concerto, dalle 11.30 alle 12.30. Nella basilica di San Francesco, Arezzo, con alle spalle gli affreschi di Piero della Francesca. “Hanno ispirato il brano Constantine’s Dream, è la prima volta che la facciamo, sono emozionata”. Patti Smith, di fronte a 500 persone molto fortunate, ha regalato stamani un incanto difficile da spiegare a chi non c’era.

Di Arezzo, degli affreschi di Piero e di San Francesco, si è innamorata tre anni fa dopo il concerto al Play Art in Piazza della Libertà (scarsamente accolto dalla città: neanche mille persone). Ha studiato gli affreschi, visitato Sansepolcro e Assisi (anche ieri). Per poi unirsi artisticamente a una band aretina, la Casa del Vento, che era brava anche prima della benedizione della Smith (solo che era più facile definirla “copia dei Modena City Ramblers”). Con il gruppo toscano, che le ha fatto compagnia anche in Basilica insieme ai membri storici della band, ha scritto due canzoni: Seneca e proprio Constantine’s Dream, vergata inizialmente sulla tovaglia di un’osteria. Sono entrambe confluite nel nuovo album Banga (nato anche a bordo del Costa Concordia poche settimane prima dell’incidente al Giglio): la sua cosa migliore degli ultimi vent’anni.

In sessanta minuti, Patti Smith ha eseguito una decina di brani, intervallati da brevi letture. A un certo punto si è bloccata, sbagliando un accordo e dimenticandosi il testo. Ha poi sorriso: “Accidenti, eppure l’ho scritta io. Nessun problema: l’errore è parte della nostra vita. E la vita è decisamente molto bella quando ti applaudono se sbagli”. Sorridente (a parte il “click” dei fotografi, rimproverati a inizio evento), oltremodo carismatica, più volte ieratica (“Rinasceremo e avremo una nuova vita”). Dotata di una voce forse mai emozionante come adesso. Chitarre (tante), di rado violino e fisarmonica. Brani nuovi e classici. Dancing Barefoot, la conclusiva People Have The Power (unica “concessione” popolare a una scaletta perlopiù mistica) e ancora una cover di Neil Young (ad Arezzo Helpless, nel disco After The Gold Rush).

C’è, in Patti Smith, una palese sperequazione tra ostentata decadenza del corpo e straripante presenza scenica. Le è sufficiente muovere una mano per inchiodare l’attenzione. E’ stato così in ogni data italiana, da Barolo a Villa Arconati, da Molfetta a Perugia. Passando per il Festival Gaber a Viareggio, sabato 21, dove ha eseguito una versione irreale della chilometrica Io come personaSandro Luporini, coautore storico del Teatro Canzone di Gaber, si è commosso e a fine esibizione ha voluto – lui che è oltremodo schivo – salutarla e abbracciarla.

Patti Smith ha voluto fortemente l’ora di concerto e reading alla Basilica di San Francesco, organizzato da Officine della Cultura e Materiale Sonoro. Ha ostinatamente cercato l’evento in una città, e in una platea, che ha capito la metà delle cose che ha detto (in inglese) e, pur entusiasta, non ha forse avuto ben chiara l’unicità del momento. 

In una intervista di qualche anno fa, Patti Smith – quasi 66 anni, sempre più italiana (dalle collaborazioni con Irene Grandi e Francesco Renga all’ultimo Sanremo con i Marlene Kuntz, genericamente definita “la sacerdotessa del rock” – ha detto che voleva accertarsi che i suoi figli Jackson e Jessica avessero un futuro più o meno sicuro. Soltanto a quel punto, che pare arrivato (la prole suona anche in Banga), si sarebbe concessa tutto quello che desiderava. “Come William Burroughs”. Oggi dà la sensazione di avere raggiunto una misteriosa pace interiore che le induce sorrisi e permette ritmi infernali – stasera a Montevarchi ancora con la Casa del Vento, poi volo all’alba da Milano per un tour in Scandinavia e di nuovo in Italia il 31 agosto: a Piazza del Campo, Siena. 

Per nulla simulacro di se stessa (non è Bob Dylan). Piuttosto una “rinata” quando forse nessuno se l’aspettava più. La giacca con le maniche troppo lunghe, i jeans, gli stivalacci pseudo-dorati. Occhiali quando deve leggere, niente trucco, capelli scombinati con la treccina come unico vezzo. Nuda e senza filtri, protesa verso una redenzione serena (e francescana).

Patti Smith ha dato l’addio alla musica all’apice del successo a inizio Ottanta. Dopo la morte del marito Fred Smith nel ’94, ci ha ripensato. Deve molto a Lenny Kaye, il direttore musicale che la segue dagli esordi. Ha scritto con Bruce Springsteen, cantato con i REM, dedicato dischi a Papa Luciani e canzoni a River Phoenix, Maria Schneider e Amy Winehouse. 
E’ stanca, felice. Irrinunciabile.

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