“Lavorare meno per lavorare tutti”, anche nella stessa famiglia: un vecchio slogan che profuma di anni Settanta torna di moda nell’anno nero 2012, anno di crisi, di fabbriche chiuse e di posti di lavoro bruciati. A proporne una riedizione riveduta e corretta è stata la multinazionale alimentare Nestlè, che ha sottoposto ai dipendenti dello stabilimento Perugina di San Sisto, nel capoluogo umbro, un’opportunità solo apparentemente nuova: ai lavoratori che volontariamente accetteranno una riduzione dell’orario, da 40 a 30 ore settimanali, l’azienda ha offerto la possibilità dell’assunzione per un figlio. La Nestlè ha definito la sua proposta un “patto generazionale per favorire l’occupazione giovanile e vincere le nuove sfide competitive, pur in un contesto di crisi”, rivendicando di aver fornito ai lavoratori una “risposta seria, responsabile e coraggiosa in un momento di difficoltà per l’economia, non solo in Umbria e in Italia, ma in molti Paesi europei”. 

L’offerta non ha però incontrato l’appoggio dei sindacati. Sara Palazzoli, segretaria generale della Flai Cgil Umbria, non usa mezzi termini: “Siamo contrari perché non consideriamo quella di Nestlè una proposta seria e di prospettiva. In sostanza la più grande multinazionale alimentare del mondo ci propone di ridurre le ore di lavoro per i padri e per i figli, creando in questo modo due nuovi poveri”.

Senza contare che, come spiega la sindacalista, “l’età media dei dipendenti dello stabilimento di San Sisto è di 33-34 anni. Questo significa che i lavoratori con figli adulti sono pochissimi, una decina su un totale di un migliaio di dipendenti”. La proposta, secondo la leader della Flai Cgil, “è una provocazione e come tale va rispedita al mittente. Dietro c’è qualcos’altro, probabilmente la volontà di ripensare l’impostazione del lavoro in fabbrica all’insegna della flessibilità”.

Nestlè non ha fornito dettagli sulla tipologia dei contratti che sarebbero applicati ai figli dei dipendenti, ma, precisa Palazzoli, “ai neoassunti di solito si applicano contratti part-time, con orari flessibili a seconda dei picchi di attività”. La sindacalista ribadisce che la Cgil è disposta a sedersi al tavolo con l’azienda, ma che non può accettare una proposta “che punta alla precarizzazione. A noi serve un piano industriale serio, che riporti a San Sisto i volumi produttivi. Perugina non è un’isola felice in un periodo di crisi economica mondiale, e non possiamo accettare provocazioni”. Per giovedì 26 luglio le Rsu e le segreterie regionali di Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil hanno proclamato uno sciopero di due ore per ogni turno nello stabilimento perugino.

“La relazione con i sindacati locali, fondata sul dialogo e su un confronto diretto, si è sempre contraddistinta per efficacia e lungimiranza guadagnandosi un posto di eccellenza nel panorama europeo – ha detto Gianluigi Toia, direttore delle relazioni industriali del gruppo Nestlé in Italia – Seguendo questo spirito, anche la nostra nuova proposta seguirà l’iter di discussione e negoziazione previsto nei tavoli preposti con le parti sociali”. Sul numero dei lavoratori coinvolti, Toia ha tenuto a precisare che “l’età media dei collaboratori dello stabilimento Nestlé Perugina di San Sisto, assunti a tempo indeterminato, ai quali è rivolta la proposta, è 50 anni. Dunque – è la conclusione del direttore – stimiamo in un centinaio circa i figli dei dipendenti che potrebbero entrare in azienda con un contratto a tempo indeterminato, anche se difficile fare previsioni, trattandosi di un’iniziativa su base volontaria”.

Il caso della Perugina non è isolato, ma rappresenta solo l’ultimo episodio di una tendenza che è tornata di grande attualità. Gli effetti positivi della riduzione dell’orario di lavoro in periodi recessivi sono stati sottolineati, a fine 2011, anche dagli economisti Tito Boeri ed Herbert Bruecker, che però avvertivano: bisogna fare molta attenzione alle differenze tra i vari Paesi e i provvedimenti devono essere temporanei. E diverse aziende sembrano aver scommesso su questa opportunità: una tra queste è Poste Italiane, che per i suoi “esodati” aveva previsto un incentivo di accompagnamento alla pensione pari a 70mila euro. Cifra che si è ridotta a 10mila per i 500 dipendenti che hanno scelto l’opzione Svincolo, che in cambio offriva l’assunzione di uno dei figli. A tempo indeterminato, ma part-time (15 giorni al mese) e con uno stipendio di circa 700 euro: una cifra esigua, specie se confrontata al sacrificio subito dai genitori. L’accordo era infatti precedente all’introduzione della riforma Fornero, con la quale i padri che hanno rinunciato all’incentivo si ritrovano senza reddito e con un attesa media di 9 anni per la pensione.

Una pratica che anche in questo caso la Cgil ha definito “medievale”; ma che resta di grande appeal soprattutto nel settore bancario. La prevede un accordo sugli esodi incentivati firmato dalle sigle sindacali del settore, la Banca di Credito di Roma e Federlus (che riunisce le Bcc di Lazio, Umbria e Sardegna): l’accordo, in vigore fino al 31 dicembre 2012, riguarda 76 dipendenti e vale per un parente fino al terzo grado, quindi anche un nipote. Corsie preferenziali per i figli dei lavoratori sull’orlo della pensione sono state previste dagli accordi sindacali raggiunti nel 2010 per Unicredit e per il Banco di Napoli. In nome di un principio, quello della job property (il posto di lavoro è un bene di proprietà e come tale può essere ereditato), che continua a far discutere.

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