Ma come si fa a chiamarsi Olinda? Eddai, diciamolo. Da quando ci è piombata addosso via tivù quella favola da orchi di Rosa e Olindo, ogni nome che ce la ricordi ci provoca un brivido. E invece il progetto di Olinda, dal nome di una delle città invisibili di Calvino, riconcilia con la vita.

Basta prendere la linea gialla della metropolitana milanese e arrivare fino alla stazione di Affori Fn, estrema periferia nord-ovest. Poi camminare per cinque minuti verso sinistra. E ci si trova all’ex Paolo Pini, il vecchio ospedale psichiatrico di Milano immerso tra gli edifici, gli spazi e i parchi che un giorno vennero concepiti per ospitarvi quelli che fino a Basaglia erano, per tutti, “i pazzi”. Da anni, lì vengono ospitati eventi sociali e culturali. Lì, dal 2001, si celebra con spettacoli teatrali e musicali il 25 aprile. Da anni vi si tiene una rassegna speciale intitolata “Da nessuno vicino è normale”. Che quest’anno è letteralmente esplosa. Gente ai dibattiti già alle sei e mezzo del pomeriggio, necessità di prenotare con largo anticipo per trovare posto a cena alle tavolate del frugale, ma ottimo ristorante, teatro al chiuso e teatro all’aperto, musica. E la leggenda, che pare abbia un qualche fondamento, delle zanzare che vanno a letto subito dopo cena.

A guidare il progetto Olinda, c’è lui, Thomas Emmenegger, uno psichiatra svizzero nato a Lucerna 59 anni fa, che si divide tra Milano e il Canton Ticino, dove è dirigente del servizio psichiatrico. Un tipo magro in jeans e occhialini, placido ma deciso come deve esserlo chi si prende in carico un progetto tanto delicato. Con lui Rosita Volani, che si occupa degli eventi culturali e spettacolari. “Il senso di quello che stiamo facendo? Glielo dico così, con il linguaggio immaginifico degli psichiatri: ci piace l’idea che il confine tra realtà e finzione sia penetrabile, che le fantasie e i desideri possano diventare materiali, che le materie e le pratiche di lavoro diventino occasione per sognare, che una persona in difficoltà possa diventare protagonista della propria vita, quando supera i confini, naviga in acque non ancora esplorate, ricostruisce identità”. Parole mai in libertà . Controllate, vigilate.

Thomas arrivò in Italia 30 anni fa. Un grande maestro  in mente: Franco Basaglia. Andò a lavorare a Trieste, per imparare la sua esperienza. Poi a Roma.

Finché non gli venne chiesto da Milano di accompagnare la chiusura del Pini, di traghettare l’ospedale verso altri destini. “La Lombardia era in ritardo. C’erano ancora dodici manicomi aperti. Del Pini dicevano che lo tenevano a esaurimento, ma quando ci arrivai c’erano ancora ospiti al di sotto dei cinquanta, il che vuol dire che continuavano a prenderne di nuovi. Poi nel ’99 chiuse, la legge Bindi penalizzava finanziariamente le regioni che tenevano aperti gli istituti. E dal 2001 è ‘l’ex Paolo Pini’ guidato da una cooperativa sociale, ‘La fabbrica di Olinda’. No, non c’è nessuna convenzione con la Regione. Non vogliamo, la logica delle prestazioni specifiche e separate cozza con le necessità dell’intervento psichiatrico, che chiede progetti generali, flessibili. Così abbiamo dato vita a quella che a Trieste era chiamata l’ ‘impresa sociale’. Ci manteniamo con le attività commerciali , il ristorante, il catering, i laboratori, l’ostello.

Vengono qui persone da tutto il mondo, artisti e registi per lavorare con noi, per produrre con noi i loro spettacoli. I locali? Sono in comodato gratuito, ma il teatro l’abbiamo ristrutturato noi a nostre spese. Poi abbiamo dei finanziamenti da fondazioni bancarie. Ma ci piacerebbe che la nuova amministrazione comunale sapesse valorizzare quello che è stato creato in più di 10 anni, affermare logiche diverse nella salute”.

Thomas ha lo sguardo acuminato e gentile. Contempla con amore il variegato insieme sociale che si muove intorno a lui. “Costruiamo opportunità per lavorare, abitare e stare con gli altri. Facciamo torte, salute, cultura, cocktail, relazioni, feste, formazione, riunioni (tante!), bilanci, calcio, contratti di lavoro a tempo indeterminato, laboratori di teatro, ristrutturazioni. E anche errori, aggiungo , senza nascondere di aver paura che il cielo ci possa cadere sulla testa. Quaranta sono i soci lavoratori. Ma tra borse, tirocini e tutto il resto, sono circa cento le persone in difficoltà che ci lavorano. Certo, bisogna sapere accettare l’imperfezione. Chi serve ai tavoli può sembrare lento, talora buffo. Non possiamo essere il massimo dell’efficienza. Ma chi viene da noi o usa i servizi della cooperativa lo sa”.

Olinda è città speciale. Dentro il suo antico e oggi magico recinto si vive, si mangia, si lavora, si fa cultura, si accoglie: clienti ma anche futuri lavoratori, compresi quelli ancora lontani dall’idea di poter lavorare. Si coltivano orti comunitari, lo fa l’associazione “Il giardino degli aromi”. Recentemente c’è stato anche il congresso di tre giorni dell’Arcilesbiche. Ci viene spesso Marco Paolini che lo scorso anno nel giorno della memoria ci ha rappresentato Ausmerzen, sull’assassinio dei disabili sotto il nazismo. “Nessuno è più residente nei vecchi locali, si usa solo l’ ostello dove si mescolano ospiti in difficoltà e giovani contenti di frequentarli. Oggi la geografia dei disagi si è molto estesa e atomizzata. Per questo siamo affascinati da un’idea ambiziosa: fondare una città là dove non c’è, trasformare il Paolo Pini in un luogo di cultura e di vita partecipata”.
Olinda a Milano, dove fu estrema periferia per i malati di mente.

Il Fatto Quotidiano, 22 Luglio 2012

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