«Lo Stato che processa se stesso: è una di quelle verità che non siamo ancora in grado di sopportare». L’ha scritto Attilio Bolzoni su Repubblica, a proposito della trattativa Stato-mafia. Sintesi lucida, in un pezzo compresso nella linea del giornale, che da Monti senatore preserva lo stato delle cose: faccia, forma, numeri, dati, consolidamento di poteri.

Inquieta che i giudici cerchino la verità, processino vertici dell’Arma per aiuti a Cosa nostra, accusino di falsa testimonianza un loro ex controllore, Nicola Mancino, e il capo dello Stato sollevi conflitto con la Procura di Palermo davanti alla Corte costituzionale. Paolo Borsellino morì perché lo Stato scelse consapevolmente di negare se stesso, di cambiare sponda, di tutelare i boss e fare a meno dei suoi uomini.

La storia della «Piovra», della lotta di polizia alla mafia, è piena di buchi, sospetti, depistaggi. Doppiezze, finzioni, ipocrisia, costanti della Repubblica che nel tempo hanno prodotto la sfiducia profonda dei cittadini, informati o meno, attivi o indifferenti. Il presidente Giorgio Napolitano ne è consapevole, e avrà letto le dichiarazioni di Marcello Dell’Utri, a cui «sembra una stronzata andare alla commemorazione di via D’Amelio» e per il quale la trattativa «è stata la cosa giusta» (il manifesto, 20 luglio 2012).

Pochissima stampa e politica hanno criticato – nel senso migliore – le telefonate di Mancino al capo dello Stato e il conflitto del secondo con i magistrati di Palermo, posto per intercettazioni indirette, involontarie. Ha ragione Marco Travaglio quando, con la sua ironia, racconta l’annullamento della logica e del buon senso ai piani alti dell’Italia; istituzionale, parlamentare e dell’informazione.

Antonio Di Pietro, l’unico controcorrente a palazzo, definisce con un adagio, «predica bene e razzola male», il comportamento del presidente Napolitano. Senza argomentazioni, governanti, legislatori e giornalisti difendono l’ordine vigente. Anche davanti a contraddizioni inaccettabili. Nessuno di loro, ovviamente, esprimerà sdegno per le parole di Dell’Utri, sopra virgolettate. Sulle critiche a Napolitano, per Il Corriere della Sera è probabile un’azione penale che altri dal Quirinale «potrebbero» avviare «a tutela» del presidente della Repubblica «e dell’istituzione che incarna».

In questi giorni si stanno scatenando diversi giuristi: risonanze magnetiche all’immunità del presidente, collegamenti a leggi ordinarie e a princìpi generali e sentenze. Tutto per dimostrare che i magistrati non possono mai intercettarlo.

Fuori di questo quadro dialettico, in cui le posizioni sono chiare, potentati contro idealità, c’è un’evidenza che le coscienze del potere hanno respinto, cassato, sepolto. Dopo i lunghi segreti e raggiri sulla «trattativa», tutto deve essere manifesto: nulla si può più nascondere, cancellare, distruggere, schermare con la forza o col diritto.

Se il presidente Napolitano non spiega pubblicamente – e subito – delle telefonate con Mancino, chi può convincere le nuove generazioni che dopo 20 anni d’assenza lo Stato c’è, e che, come significato dal capo dello Stato, vuole la verità?

È col silenzio che in Italia si sono create le fratture. E, a futura memoria, col silenzio diventeranno insanabili. 

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