Non si sono mai rassegnate e hanno vinto. Rosa, il capitano, Patrizia, Anna, Nicoletta, Antonella, Franca, Ines, Silvana… e altre 21 loro compagne, ce l’hanno fatta. Per 543 giorni e 543 notti si sono barricate nella loro fabbrica e l’hanno difesa da una morte certa. Hanno lucidato e tenuto sempre in perfetta efficienza i macchinari, impedito che di notte il magazzino venisse svuotato del materiale buono, hanno lottato contro l’indifferenza degli operai delle altre fabbriche, di parte dei sindacati, della politica, delle istituzioni, di chi poteva dare una mano e non l’ha fatto.

Perché quanto contano 29 operaie di Latina nel mondo globale della crisi? “Zero, meno di zero. Ma alla fine, ce l’abbiamo fatta a invertire un destino già segnato. Scritto da quanti nei talk-show teorizzano la fine dell’industria manifatturiera in Italia, dai teorici della delocalizzazione nei paesi dell’Est perché da noi il lavoro costa troppo. Ma quale? Il mio e quello delle mie compagne? Guarda la mia busta paga, quando la prendevo, 1.100 euro al mese”. Rosa Giancola, ribattezzata il capitano dalle sue compagne, me la mostra. La cifra è quella. Con quei soldi devi campare una famiglia: affitto, cibo, scuola, l’essenziale. Il superfluo, quello lo vedi in tv. “Poi arriva un signore al quale hai dato per 20 anni i tuoi giorni migliori, la tua abilità professionale, e dice che è finita. Il lavoro non c’è più perché lui è in crisi di liquidità. Ma noi la fabbrica la conosciamo, sappiamo che non è così. Sapevamo quali commesse aveva, dalla Protezione civile, dal ministero dell’Interno, soldi sicuri. Ecco perché ci siamo chiuse in questi capannoni per 543 giorni. Per difendere il nostro destino e la nostra dignità”. Un passo indietro, la fabbrica è la Tacconi Sud, emanazione della Tacconi Nord, ramo tessile di qualità. Produce divise per la polizia e altri corpi dello Stato, giubbotti antiproiettile e lavora il Goretex, essenziale per produzioni di livello, come quella tenda gonfia-bile da usare nelle emergenze nazionali già montata al centro del capannone, o le barriere per impedire l’inquinamento del mare (quelle che circondano il relitto della Concordia). E’ l’ultimo stabilimento costruito con i finanziamenti della Cassa del Mezzogiorno, la perfetta sintesi della politica di investimenti al Sud: industriali “prenditori” del Nord da acchiappa i soldi e scappa. Rosa e le sue compagne lavorano nella fabbrica dalla sua apertura, ma è a metà degli anni Novanta che i soci della Tacconi cominciano a delocalizzare in Romania.

Da allora per tutte inizia un calvario fatto di uscite e rientri in fabbrica, cassa integrazione, stipendi non pagati e minacce di chiusura. Fino al 22 dicembre del 2010, l’atto finale. L’imprenditore manda una lettera a sindacati ed operaie. Il linguaggio è burocratico, ma due parole in coda bastano a capire che è finita: “cessazione dell’attività”. Cancelli chiusi. Tutti a casa. “Eravamo sconvolte, l’imprenditore era scomparso senza firmare neppure i documenti necessari per ottenere la cassa integrazione. E così, dopo nottate di assemblee abbiamo deciso: occupiamo la fabbrica. Ma non scrivere così, diciamo che abbiamo fatto una lunga assemblea permanente”, racconta Rosa. “E’ stata una impresa disperata, ma tra di noi abbiamo fatto un patto: voi resistete, il sindacato si impegna a sostenervi e a trovare un altro imprenditore”, ci dice Roberto Cecere, il segretario della Femca-Cisl. 543 giorni, feste comprese.

Sul piazzale della fabbrica ci sono ancora i bracieri per la grigliata dello scorso Ferragosto. “C’erano tutti, i nostri mariti, i figli, gli amici, quelli che ci hanno aiutato”. Quando Rosa ricorda le sue compagne non si trattiene e piange. “Donne che hanno lasciato i figli a casa, amiche care come Anna che ha 55 anni e se perde questo lavoro finisce per strada con un marito malato di tumore e figli da crescere”. Ma il racconto della straordinarietà di queste operaie entrate ragazze in fabbrica e diventate donne adulte quando hanno dovuto difenderla, non finisce qui. Rosa aveva la terza media quando ha iniziato a spaccarsi la schiena per sette ore al giorno piegata su una macchina per cucire. Ha deciso di andare avanti. La sera, quando finiva, andava alla scuola serale (quelle del progetto “Sirio”che la Gelmini ha soppresso, così, per risparmiare) e ha conquistato la maturità scientifica. Poi si è iscritta all’università, scienze della formazione e sviluppo delle risorse umane, tra un paio di anni prenderà la laurea.

Non contenta si è trascinata Patrizia, che cuciva giubbotti antiproiettile per sette ore al giorno e aveva due bambine da crescere, e l’ha fatta diplomare. Se la ministro Fornero si facesse un giro sulla Pontina fino ad arrivare a Borgo San Michele, rivedrebbe molte delle sue idee sul lavoro e sul concetto di sacrificio, e forse capirebbe qualcosa di più di questo Paese e della sua gente. Come è finita? La Tacconi è sotto fallimento, nel frattempo operaie e sindacato hanno trovato un imprenditore disposto ad affittare l’azienda per tre anni, la Comp Tech Europe, che lavora nel ramo ferroviario, nautico ed aereo. La fabbrica continuerà a vivere e le operaie torneranno al lavoro. Dal 21 febbraio scorso sono senza stipendio e senza gli 800 euro di cassa integrazione, ma hanno vinto e con loro ha vinto la dignità.

Il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2012

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