I risultati definitivi e ufficiali si sapranno nel corso o verso la fine della settimana, ma dalle urne delle prime elezioni parlamentari libere svoltesi in Libia da oltre 40 anni, starebbe emergendo una vittoria chiara della Coalizione delle forze nazionali dell’ex ministro di Gheddafi nonché premier del governo di transizione post-Gheddafi, Mahmoud Jibril.

Le formazioni islamiste non avrebbero replicato il successo ottenuto in Tunisia ed Egitto. Hanno votato in molti, il 7 luglio: 1.700.000 libiche e libici, oltre il 60 per cento dei poco meno di tre milioni che si erano registrati al voto, anche se l’afflusso nelle città costiere è stato quasi plebiscitario mentre a Kufra sarebbe andato alle urne meno del 15 per cento della popolazione.

Il Consiglio nazionale generale sostituirà nella sua funzione legislativa il Consiglio nazionale di transizione e nominerà il governo, ma non scriverà la nuova Costituzione, compito che spetterà a un’Assemblea costituente che sarà oggetto di una successiva elezione popolare.

Il parlamento che s’insedierà e il governo che sarà nominato avranno davanti a sé una serie di sfide complesse. Una le riassume tutte: dimostrare di essere istituzioni dello stato.

Finora, infatti, il potere in Libia è stato gestito dalle centinaia di milizie armate locali. Trascorso quasi un anno dalla caduta di Gheddafi, i thuwwar (rivoluzionari) hanno dettato legge a modo loro: arresti e imprigionamenti arbitrari, torture mortali, omicidi illegali, sfollamenti forzati di intere popolazioni e scontri interni, col ricorso sconsiderato a mitragliatrici, lanciagranate e altre munizioni contro le aree abitate, con morti e feriti a centinaia tra i civili, come a Kufra.

Le milizie dovranno essere disarmate con maggiore velocità e decisione (a giugno il viceministro dell’Interno aveva dichiarato ad Amnesty International di essere riuscito a smantellarne appena quattro nella capitale Tripoli!) e gli ex ribelli che vorranno entrare nelle forze armate e di polizia dovranno essere sottoposti a un rigoroso addestramento.

Per ripristinare lo stato di diritto e porre fine alle azioni criminali delle milizie, sarà necessario anche riportare sotto il controllo dell’autorità giudiziaria le decine di centri di detenzione, ufficiali e non riconosciuti, ancora gestiti dai thuwwar. Oltre la metà dei 7000 detenuti, tra cui molti migranti, si troverebbero fuori dal controllo delle autorità di Tripoli. I morti di tortura, dall’agosto 2011, sono almeno 20.

Tra i metodi di tortura usati regolarmente, figurano la sospensione in posizioni contorte, le scariche elettriche e i pestaggi prolungati con svariati oggetti, come sbarre e catene di metallo, cavi elettrici, bastoni di legno, tubi di plastica, canne dell’acqua e calci dei fucili.

Dovrà essere risolto il problema di Tawargha, la cui popolazione ha pagato il prezzo collettivo dell’accusa di aver partecipato all’assedio e ai crimini di Misurata, uccidendo, torturando e stuprando per conto di Gheddafi. Risultato: case saccheggiate e bruciate, oltre 35.000 persone, donne e bambini inclusi, cacciati e ancora oggi lontani dalla loro città.

Sono tanti i libici che attendono che, finito il quarantennio di Gheddafi, termini anche questo dopoguerra fatto di rappresaglie e di assenza di giustizia.

Fino a domenica 21 luglio, proprio di fronte alla Libia, Amnesty International ospiterà il primo campeggio internazionale sui diritti umani: a Lampedusa, al centro del mare e al centro dei diritti. Si parlerà anche delle tante sfide che attendono la nuova Libia.

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