“Il Paese non è fatto delle beghe nostre”, dice il leader Pd Pierluigi Bersani. L’assemblea Democratica è finita, ma quelli che sono calati sullo schermo sono titoli di coda ancora una volta velati dai rancori e dalle divisioni interne. Bersani ce l’ha messa tutta a tenere a bada un partito alla mercè di mille correnti e altrettanti appetiti, lacerato al suo interno forse addirittura più del Pdl, ma più avvezzo dalla storia e dalla tradizione a lavare i panni sporchi dentro le segrete della Direzione Politica. Il risultato, però, non è stato all’altezza dello sforzo. Perché, per quanti tentativi di aggregazione interna si siano fatti, poi alla fine le divisioni – quelle profonde, quelle di sempre – sono uscite allo scoperto. Facendo chiaramente capire che quel partito su cui un ansioso elettorato punta come colonna portante per il dopo Monti, è ancora un soggetto che non ha risolto dei nodi fondamentali della propria linea politica.

Succede ancora una volta a Roma, all’assemblea del Partito Democratico, chiamata a sciogliere questioni programmatiche difficili in vista di primarie che, comunque, se non governate, potrebbero trasformarsi in un bagno di sangue. E invece va tutto storto. O, almeno, non va come i maggiorenti del partito si erano augurati, tanto che si sfiora quasi la rissa, con Rosy Bindi contestata dalla platea per la gestione di un fondamentale documento sui diritti civili, mentre si sono inabissati dentro i cassetti anche altre importanti mozioni, come quella che blocca le ricandidature eterne in modo da favorire un ricambio generazionale di eletti almeno tra gli scranni parlamentari. E, invece, ancora no; tutto rinviato alla Direzione del Partito, il solito Comitato Centrale che poi butta regolarmente la palla in tribuna per non intaccare le rendite di posizione di chi, dopo tanti anni, potrebbe anche fare il padre nobile e invece insiste a rimanere in prima linea. Otturando la crescita e il rinnovamento.

In breve: l’assemblea del Pd è stata un grossolano disastro. Ancora una volta, i popolari piddini, capitanati da Rosy Bindi, sono riusciti a fare il gioco delle tre carte e a seppellire un importante documento sui diritti delle coppie gay che avrebbe potuto dare un segnale netto a un elettorato di sinistra che non vede l’ora di riconoscersi nei Democrati e, invece, ancora proprio non ci riesce; l’anima cattolica interna ha ulteriormente dimostrato di avere un forte potere di interdizione proprio sui fondamentali, i diritti civili dei cittadini garantiti da una Costituzione da sempre “laica”; niente da fare, dunque. Sui diritti delle coppie omosessuali, infatti, la spaccatura si è consumata con la presentazione di due differenti testi. Il primo, messo a punto dal Comitato per i diritti, è passato con 38 voti contrari. Il secondo, più netto e con un’esplicita apertura alle nozze gay, non è stato neppure messo in votazione dalla presidente Rosy Bindi. Decisione che ha sollevato critiche e contestazioni. Enrico Fusco, attivista gay, responsabile diritti della segreteria pugliese, ha preso la parola per annunciare che darà indietro la tessera del Pd: “Il documento della Bindi è vergognoso”.

Stesso film, stesso copione, medesima sceneggiatura quando si è affrontato il nodo delle primarie, con i “giovani” Civati, Gozi e altri che hanno chiesto di fissare data e regole per la consultazione, con il limite dei tre mandati per i parlamentari. In entrambi i casi Marina Sereni ha  spiegato che si trattava di “ordini del giorno che contrastano con i voti che abbiamo già effettuato, chi sta in Parlamento dovrebbe saperlo”, ma se non è possibile modificare le regole del gioco nell’assemblea più importante del partito, quando lo si dovrebbe mai fare? E’ stato in quel momento che Bersani ha alzato la voce e ha tirato le redini ad un’assemblea ormai tracimata in bagarre dicendo che “il Pd è il primo partito del Paese, dobbiamo dire con precisione all’Italia che cosa vogliamo, il Paese non è fatto delle beghe nostre”, ma ormai la fotografia del disastro l’avevano già scattata tutti quanti.

Certo, ha concluso Bersani, le primarie si faranno “entro l’anno”, ma guai a dire una data. Così come sono partite bacchettate sulle mani a chi ha osato contestare il comportamento scandaloso della Bindi :“Nel momento in cui per la prima volta il partito prende l’impegno ad una regolamentazione giuridica delle unioni – ha ammonito il segretario – vedo gente che dice vado via”. Ce ne saranno molti altri a lasciare il campo, non ci sono dubbi, se questo è l’andazzo.

Dell’assemblea del Pd di Roma, insomma, resta un’inequivocabile immagine generale. Quella di un partito irrisolto, gravato da responsabiltà politiche di prospettiva di cui non sembra cogliere il peso, ma solo la lusinga del potere per il mantenimento perenne di alcune, prestigiose, rendite di posizione. E che, soprattutto, non riesce a rispondere a se stesso sulla sua stessa natura, se – cioè – imprimersi una netta svolta a sinistra, abbracciando Vendola e Di Pietro, oppure restare ostaggio della parte centrista interna al partito e sposare Casini. Le due anime principali del partito, ormai appare lampante, non sono in grado di convivere a lungo. Sarebbe bene che la segreteria se ne rendesse conto e si muovesse di conseguenza, facendo una scelta di certo coraggiosa e lacerante, ma necessaria. Prima che a rispondere – e in modo definitivo – siano gli elettori nelle urne del 2013. Con tutte le conseguenze del caso.

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