Dovessero intitolare a qualcuno la stazione di Vercelli io, di sicuro, proporrei le mondine che, nel 1906, si stesero sui binari per scioperare e impedire che arrivassero le crumire, nonostante le cariche dei carabinieri a cavallo. Fu una bella pagina, quella, e il 1906 è una data da ricordare: perché per la prima volta in Europa fu firmato un accordo che prevedeva le 8 ore di lavoro.
Al primo posto le mondine, dunque. 
Ma con un dispiacere: perché forse anche Cesare Pavese meriterebbe almeno una menzione.
Il racconto che segue (e che io ripropongo fidandomi della mia memoria) lo scrisse un signore, Dino Lo-Iacono, critico teatrale per vent’anni almeno del bisettimanale La Sesia e, ironia della sorte, proprietario terriero risicolo. Uno insomma che le mondine le faceva lavorare.
Quel che che conta, però, è questo: Dino Lo-Iacono, che da tre anni non c’è più, un anno, quando frequentava il Ginnasio, ebbe come insegnante di lettere un giovane professore che si chiamava, appunto, Cesare Pavese.

E un pomeriggio, il giovane insegnante che vive a Torino, dopo una giornata di lavoro, va alla stazione, che dista dal Ginnasio dieci piacevoli minuti a piedi, per rincasare col treno. Sono dieci minuti piacevoli, perché volendo si passa davanti alla basilica romanica di Sant’Andrea, il più bel monumento di Vercelli, oppure, se non fa freddo, ci si siede su una panca dei giardini a fumare una sigaretta.
Cesare Pavese, quel pomeriggio, come al solito arriva in stazione con anticipo e, come al solito, prende posto in sala d’aspetto, cercando di isolarsi così da leggere in santa pace e intensamente, anche.
Tanto intensamente che non si accorge dell’arrivo del treno, che era il “suo treno”; quello che da Milano l’avrebbe portato a Torino, né si accorge di quello successivo, né di altri e, quel che è peggio, non si accorge dell’ultimo treno.
Si risveglia dalla lettura quand’è ormai troppo tardi, racconterà il personale della ferrovia, stupito nel vedere che Pavese non si disperasse; che non cercasse un albergo, ipotizzarono, era dovuto alla leggerezza del suo portafogli.
Comunque.
Dormì tutta la notte su un sedile di legno della sala d’aspetto (che ora non c’è più) della stazione di Vercelli.
Forse a leggere, o correggere temi, chissà.
Di sicuro nessuno sa quale fosse il libro che catturò a tal punto il giovane, squattrinato professore, Cesare Pavese.

PS. Magari in qualche bancarella piemontese si trova ancora qualche copia del libro scritto da Felice Pozzo dal titolo “Cesare Pavese a Vercelli”. Casa editrice Sete, 1972.

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