“Non sono femminista. Le donne hanno molto potere, lo hanno sempre avuto”. Che Vivienne Westwood, classe 1941, avesse le idee molto chiare in fatto di moda era noto, ma che la signora del punk avesse da dare lezione anche in tema di diritti, no. E invece eccola, con la sua chioma rossa e un cappello da ragazzina, a parlare di donne. Soprattutto dei diritti di quelle donne che a Nairobi, grazie all’Ethical fashion project, hanno riacquistato dignità e coraggio. L’abbiamo incontrata nel backstage della sua sfilata, durante Milano moda uomo: spontanea e vivace, con i suoi quindici centimetri di tacco portati col piglio di un’adolescente, abbiamo parlato poco di moda e molto di sostenibilità. E di donne.

Vivienne Westwood è una donna che ha dato vita a molti progetti, tutti di grande successo. Ha fatto la storia della musica non meno di quella della moda: insieme all’allora marito Malcom Mc Laren, ha “creato”, nella vivace atmosfera londinese degli anni ’70, le basi per quello che poi sarebbe stato il gruppo più rappresentativo della scena punk mondiale, i Sex Pistols. Tutto è cominciato in un piccolo negozio di abbigliamento, dal nome quanto mai profetico: “Sex” (il negozio cambiò poi nome e insegna molte volte). Da lì alla creazione di una delle case di moda più conosciute e apprezzate del mondo il passo è stato breve. 


video di Franz Baraggino

Lo scorso giugno si è svolto a Rio il “Rio +20 corporate sustainability forum” che ha raccolto il mondo delle imprese private, con più di duemila partecipanti. Obiettivo? Ribadire il loro impegno a favore dell’introduzione di modelli di business sostenibili, nel settore privato. Tra le iniziative proposte, quella sostenuta dall’International trade center (un’agenzia delle Nazioni unite) punta a sviluppare modelli etici di business in campo moda, individuando due elementi di successo fondamentali: l’eliminazione dell’estrema povertà e l’aumento del potere delle donne nei paesi sottosviluppati. Vivienne ha subito accolto l’invito delle Nazioni unite tout court, sviluppando un modello di business che prevede il coinvolgimento di donne africane nella manifattura di borse e accessori. Nei villaggi intorno a Nairobi individuati dalla stilista inglese, prima del suo intervento la maggiore fonte di sostentamento proveniva dalla compravendita di oggetti presi dall’immondizia. Con l’arrivo di Mrs Westwood la produzione (quindi la fonte di reddito) si è spostata sulla manifattura di moda.

Così queste donne africane (quasi settecento in solo due stagioni) sono diventate indipendenti: potendo contare su un reddito proprio, hanno potuto ricomprare il bestiame che era stato decimato dalla siccità, hanno acquisito dignità e orgoglio sufficienti a far valere i propri diritti nella comunità. Vivienne ribadisce: “Non aiutiamo queste donne con la carità, le aiutiamo insegnando loro un lavoro”. Le borse e gli accessori realizzate dalle donne africane per Vivienne Westwood sono state ribattezzate dalla stessa stilista, in modo dissacrante e creativo, con la sigla “I love crap“, una sorta di “mi piace la spazzatura”. Una provocazione, una delle tante, sicuramente non l’ultima della signora del punk.

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