Alla metà del XVI secolo un collegio di giuristi inglesi espone la seguente teoria: «il re ha in sé due corpi, cioè il corpo naturale e il corpo politico. Il corpo naturale è un corpo mortale, soggetto a tutte le infermità naturali e accidentali, alla debolezza dell’infanzia e della vecchiaia e a tutti i consimili inconvenienti cui vanno incontro i corpi naturali delle altre persone. Ma il suo corpo politico è un corpo che non può essere visto o toccato, consistente di condotta politica e di governo e costituito per la direzione del popolo e la conservazione del bene pubblico, e questo corpo è palesemente privo di infanzia e di vecchiaia e di tutti gli altri difetti e debolezze cui è soggetto il corpo naturale».

Così comincia uno dei capolavori della storiografia contemporanea, I due corpi del re di Ernst Kantorowicz, pubblicato originariamente nel 1957 e adesso riedito in edizione tascabile da Einaudi. Kantorowicz vi esplora la duplice natura – mortale e soprannaturale – dei sovrani di epoca tardo medievale e moderna.

Da cosa deriva l’idea di questa duplice natura? Da un calco della duplice natura del Cristo, proiettata sulla figura del sovrano. Un re, del resto, diventa tale per effetto della Grazia che si posa su di lui, cosicché anche il re «è un essere doppio, umano e divino, proprio come il Dio-Uomo», sebbene egli acquisti questa sua duplicità non per natura ma per mezzo dell’unzione e consacrazione che gli sono applicate al momento dell’incoronazione. E che cosa significa che «il re non muore mai»? Questa locuzione, così diffusa in epoca moderna, allude alla perennità della funzione, che non può essere messa in crisi nemmeno dalla morte del sovrano. Ed è per sottolineare questa perennità della funzione politica che sin dal XIV secolo si introducono particolari rituali funebri riservati ai re, durante i quali viene esposto un manichino in cera o in legno che riproduce le fattezze del sovrano ed è ricoperto degli attributi regali, che viene servito e accudito come se si trattasse della persona viva del re, mentre il corpo nudo del sovrano morto viene deposto in una bara, avvolto in un semplice sudario. Il rituale, che dura sino alla proclamazione del nuovo re, significa che la morte fisica di un re non equivale alla morte politica dell’istituzione: e con ciò l’atmosfera di sacralità che si vuole costruire intorno alla figura del re arriva fin quasi a sfidare la morte.

La concezione della duplicità corporale dei re ha anche un altro risvolto: consente di ritenere che un re – nella sua declinazione umana e mortale – sia soggetto alle bassezze e alle debolezze a cui sono esposti tutti gli umani, e anche più di tutti gli umani, senza che la dignità che gli deriva dal suo «super corpo» politico ne venga minimamente intaccata. Non è che, per caso, questa idea vi ricorda qualcosa? Se è così, non ci sarebbe da sorprendersi: sebbene la concezione della sovranità in Occidente sia mutata radicalmente almeno dal tardo XVIII secolo, particolari comportamenti di singoli leader politici contemporanei ancora si modellano su questa duplice concezione del corpo politico: dai primi dell’Ottocento a oggi si assume spesso che il ruolo politico di capo dello Stato o di membro di un Parlamento proietti una speciale dignità sull’individuo che ricopre quelle cariche; e taluni danno per scontato che tale dignità debba mitigare o addirittura annullare il rilievo di cadute morali, a volte anche gravissime, di cui un politico possa essersi macchiato.

Kantorowicz, che è morto a Princeton nel 1963, non ha mai avuto la «fortuna» di conoscere i «compagni di casta» che ci circondano: ma ci ha lasciato un’analisi di antropologia politica raffinata e profonda, in grado di proiettare straordinarie suggestioni anche su epoche molto lontane da quelle trattate in questo grande libro.

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