La Turchia ha deciso la prima risposta all’abbattimento dell’F4 da parte delle forze militari della Siria il 22 giugno scorso. Ed è una risposta minacciosa, anche se per ora solo difensiva. Le forze armate di Ankara hanno deciso infatti di rischierare sei cacciabombardieri F16 vicino al confine siriano, come misura di dissuasione contro eventuali violazioni dello spazio aereo turco da parte di aerei o elicotteri siriani. Nei giorni scorsi il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan aveva fatto sapere che avrebbero reagito a quanto avvenuto.

Oltre il caccia abbattuto, infatti, il premier aveva spiegato in Parlamento che già in altre occasioni, almeno cinque, elicotteri siriani avevano sconfinato. Gli F16, i più moderni caccia in dotazione all’aviazione militare turca, sono stati divisi tra la base militare di Incirlik e quella di Batman, nel sud dell’Anatolia, a poca distanza dal lungo confine terrestre con la Siria, che aveva ammesso l’abbattimento dell’aereo sostenendo che il vevivolo non era stato identificato. Circa 500 chilometri di frontiera comune che l’esercito di Ankara sorveglia il più possibile. Da quanto hanno fatto sapere alle agenzia di stampa internazionali i militari turchi, i caccia sono già stati impegnati in missioni di dissuasione. Due coppie di F16 da Incirlik si sono alzate in volo sabato, per intercettare elicotteri siriani che volavano vicino al confine della provincia turca di Hatay. Domenica, invece, sono stati i caccia partiti da Batman a sorvegliare altri elicotteri di Damasco che sorvolavano la zona a ridosso della provincia di Mardin, nel sud est della Turchia. Il governo turco ha fatto sapere che non ci sono state violazioni del suo spazio aereo da parte degli elicotteri siriani. Secondo l’Associated Press, che cita fonti militari turche, gli elicotteri si sono “fermati” a 6 chilometri e mezzo dalla linea di confine.

Non è quindi ancora una vera e propria escalation militare tra i due paesi un tempo alleati, ma di certo è finora la più concreta “prova” dei timori che ha ripetuto anche Kofi Annan, inviato speciale di Onu e Lega Araba, al termine dell’incontro avuto sabato a Ginevra con i rappresentanti dei principali paesi coinvolti nella crisi siriana. Annan ha detto che il rischio di una espansione del conflitto e di un suo aggravamento (i morti in 16 mesi di proteste sono oltre 15 mila) è ancora molto concreto. L’incontro si è concluso in modo molto vago, e sull’accordo finale, che invoca un governo di “unità nazionale” per cercare di traghettare il paese fuori da una crisi sempre più sanguinosa, circola un generale scetticismo. “Il tempo per un accordo sta scadendo – ha detto Annan al termine del summit – . Abbiamo bisogno di un patto politico per porre fine allo spargimento di sangue. Questo conflitto deve essere risolto con il dialogo”.

Il comunicato finale del summit, invita le parti a creare un governo di unità nazionale in cui “possano essere inclusi membri dell’attuale governo e delle opposizioni, nonché di altri gruppi e possa essere formato con il consenso delle parti”. Una locuzione diplomaticamente ambigua, che potrebbe essere interpretata in modo da lasciare aperta la porta ad Assad per una transizione pilotata, ma anche per escludere il presidente dal nuovo eventuale governo. Sembra, secondo alcuni commenti, che i paesi del Consiglio di Sicurezza siano stati più preoccupati di non far esplodere le proprie divergenze che di arrivare a un qualche documento che abbia la forza per fermare effettivamente il conflitto. Per la Russia, che non accenna a modificare la sua posizione di sostegno al regime di Assad, si è trattato di una vittoria diplomatica visto che la versione iniziale del comunicato escludeva esplicitamente (come chiesto dai paesi occidentali e della Lega Araba), la presenza di esponenti dell’attuale governo. Il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov infatti ha commentato molto positivamente l’esito del vertice, dicendo che “nessuno ha imposto una soluzione alla Siria”.

Per il segretario di stato Usa Hillary Clinton, invece, vale esattamente il contrario e la mozione finale è una chiara indicazione del fatto che “Assad deve andarsene”. Il presidente siriano, però, non ha alcuna intenzione di mollare la presa. Anzi, secondo i gruppi di opposizione, le operazioni militari dell’esercito regolare continuano, con duri combattimenti nei sobborghi di Damasco che da giorni sono teatro di scontri tra i soldati del regime e i combattenti del Free Syria Army. A giudicare dalla situazione sul campo, l’accordo tra le parti invocato a Ginevra sembra decisamente improbabile.

di Joseph Zarlingo

 

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