Galateria, Scritti galeottiPrendete otto scrittori e costringeteli a partorire un racconto in una settimana nell’esclusiva enclosure di Ventotene (il tutto entro domenica 1° luglio). Una volta luogo di confino e ora incantevole isola vacanziera. L’idea (di Lidia Ravera) è quella di registrare la creatività, coglierla nel suo momento più fulgido e segreto, quello dell’origine.

Quasi un sussulto heideggeriano, per il quale l’artista è tale solo nel momento in cui crea. Una volta era di moda, sempre d’estate, mostrare i pittori all’opera, en plein air, impegnati in estemporanee fatiche sotto il solleone. Adesso si scava ancor più in profondità: si scandaglia l’origine del fatto letterario, la cui consistenza è oltremodo labile e non visibile, se non nell’attimo in cui viene trasferita sulla carta (o sullo schermo del computer).

In genere lo scrittore è sempre stato un solitario, geloso della sua privacy e creativo solo nell’isolamento. Non è un caso che si parli, in questi giorni, di Chester Himes, divenuto scrittore in carcere, a proposito del libro di Daria Galateria (Scritti galeotti, Sellerio, 2012). Luogo per antonomasia di inattività, concentrazione ed evasione (solo) mentale: condizioni ottimali per esaltare la creatività.

Eppure c’è un mio vecchio amico che, per scrivere al meglio, sedeva in un angolo di un affollato bar di Napoli e riusciva a isolarsi proprio per effetto del vivace brusio delle voci. Certe volte il silenzio è solo mortale.
Dunque ci sono molti modi per trovare ispirazione. Difficile essere creativi a comando. Si rischia la banalità o, alla meno peggio, di rimasticare vecchie idee riprese per l’occasione. Specie quando il tema è obbligato.

Essere creativi non è come andare in bicicletta, che, una volta imparato, non si dimentica più. Ogni volta è la prima volta. Magari l’esperienza facilita nell’uso del linguaggio, ma la buona idea è un fatto occasionale, intuitivo, emotivo. Occorrono sensibilità e un sacco di qualità personali che attengono esclusivamente a quel singolo individuo.

Chi non ha il dono della creatività – che tutti possediamo in certa misura, ma che una certa educazione e le condizioni di vita provvedono a cancellare – può vederla all’opera solo a prodotto finito. Bella e confezionata dentro un libro o un film.

Qui a Ventotene, almeno, c’è l’occasione di sentire i cervelli al lavoro, vedere le penne strette fra i denti, lo sguardo perduto lontano. A fissare quel faro bianco che richiama, nelle intenzioni degli organizzatori, il capolavoro di Virginia Woolf, To the Lighthouse (1927). Potenza delle sollecitazioni cerebrali.

Chissà se gli otto volontari di Ventotene riusciranno nell’intento grazie a uno stretto servizio di vigilanza (con tanto di body guards) o all’indiscreta presenza delle telecamere.

Articolo Precedente

Canzone in prigione – Le battaglie dei radicali

next
Articolo Successivo

Cinecittà come luogo della conservazione

next