“Sai come licenziano in una multinazionale?” La mia amica mi guarda sapendo che la domanda sarà il pezzo forte della mattina. “Dipende dalla multinazionale”, rispondo io, e mi sembra una risposta scontata, indiscutibile. “È successo ieri a mio marito”. Non conosco personalmente suo marito, lo conosco perché qualche volta me ne ha parlato, quindi ho giusto gli elementi basilari della sua storia: quanti anni ha (una quarantina), qual era il suo ruolo nella multinazionale da cui è stato appena licenziato (progettista nel settore automotive), quante ore al giorno lavorava (10-12, a volte anche di più, ma del resto aveva un ruolo di responsabilità).

“Licenziato?” La guardo sconcertato. “In tronco”, risponde lei con un sorriso amaro. “L’ha chiamato il direttore del personale intorno alle dieci del mattino e gli ha comunicato la cosa: ‘Ti offriamo dodici mensilità, prendere o lasciare. Se vuoi puoi fare vertenza, per noi non è così rilevante’. Non gli ha dato nemmeno il tempo di replicare. ‘Riduzione del personale per riorganizzazione aziendale’, ha detto”.

Scuoto la testa, non so che dire. “Tra l’altro,” continua lei, “la cosa incredibile è che gli è stato vietato di salutare i colleghi, e una volta uscito dalla stanza ha trovato un lucchetto alla porta del suo ufficio, ha chiesto spiegazioni e gli hanno detto che avrebbero fatto un pacco delle sue cose e gliele avrebbero spedite a casa con DHL”.

“Addirittura? E perché?”. “Rischio di spionaggio industriale”. Un comportamento che sulle prime mi sembrava esagerato, adesso riesce perfino ad avere un senso, una sua logica malata. “In fondo c’è gente che viene messa alla porta senza buonuscita. Almeno in questo siamo fortunati”.

“Fortunati?” Le faccio questa domanda perché non riesco ad accettare che la fortuna venga calibrata sulle disgrazie. “Eh sì. Per lo meno abbiamo un anno per cercare un nuovo lavoro. E un anno è un sacco di tempo”. Si toglie gli occhiali da sole, ha l’espressione di chi non ha dormito abbastanza. “Hai sentito che ha detto il ministro ieri, no?”

Le faccio segno di sì: “Ho sentito”.

“Qui niente è più un diritto, neppure la decenza”. Si strofina gli occhi. “Figuriamoci il lavoro”.

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