La recente scomparsa di Giuseppe Bertolucci, maestro di un cinema italiano intelligente e impegnato nella ricerca di nuovi percorsi così come attento al proprio passato (era stato tra l’altro per molti anni presidente della Cineteca di Bologna), sta facendo riemergere in questi giorni di ricordi e di testimonianze un film-culto, adorato da un’intera generazione di spettatori cresciuti negli anni Settanta, ma amato moltissimo anche dagli spettatori più giovani: Berlinguer, ti voglio bene. Fu il primo film per il cinema di cui Bertolucci firmò la regia e il primo film interpretato da Roberto Benigni.

Bertolucci e Benigni lo scrissero insieme, sull’onda del mitico monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, che aveva fatto conoscere Benigni attraverso il circuito delle case del popolo e delle cantine. Rivederlo ora fa impressione perché vi traspare tutta l’energia di cui il cinema italiano era portatore e che oggi sembra smarrita. C’è in quel film naturalmente la forza vitale di Benigni, che all’epoca (siamo nel ’77) sconvolse il panorama della produzione comica italiana apportandovi la linfa che veniva dalla cultura contadina nutrita del contatto con la materia, con la terra, con i ritmi e i cicli delle cose naturali. Quella cultura che rendeva necessariamente tattili tutte le cose, sicché anche il mitico monologo sboccato di Cioni Mario nel campo, subito dopo la notizia della morte della madre e il contestuale naufragio di un’avventura galante appena iniziata in una sala da ballo, perdeva ogni volgarità malgrado l’uso abbondantissimo del turpiloquio e acquistava la concretezza delle cose corporali qui quasi rese oggetto sacro.

Ma c’è anche la forza di invenzione di una regia fresca, capace di sciogliere i vincoli narrativi un po’ stantii della commedia italiana dell’epoca, di liberare la scrittura facendo del film più il luogo di un’esplosione di vitalità, più la manifestazione di un bisogno (bisogno di cosa? forse non si sa nemmeno bene, ma bisogno comunque: di rivoluzione, di comunismo, di donne, di mamma, di sesso, di tutto insieme senza ordine…) che il racconto di una storia.

E c’è poi tutta l’energia politica che animava la società italiana ancora quarant’anni fa. Il comunismo visto un po’ fideisticamente e molto fisicamente come il luogo di un godimento quasi orgasmico. Un luogo che si sarebbe materializzato d’improvviso, un giorno, facendo diventare adulta quella società che fremeva dalla voglia di lasciare la propria condizione infantile, ma che non sapeva attrezzarsi da sola per farlo.

Forse Berlinguer ti voglio bene è il primo e anche l’ultimo film in cui il corpo, il cinema e la politica sono guardati con un atteggiamento di amore laico e carnale: quasi che solo la congiunzione di questi tre elementi fosse capace di produrre una forza propulsiva, di cui la società e il cinema invertebrati di oggi sentono molto la mancanza.

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