L’introduzione della ‘pratica musicale’, ossia l’insegnamento di uno o più strumenti musicali, nel nostro sistema educativo, auspicato da Luigi Berlinguer e dal Comitato per l’apprendimento pratico della musica da lui presieduto, rientra in un progetto di ampio respiro che nutre l’ambizione di emancipare in maniera definitiva la scuola italiana dall’egemonia culturale del neoidealismo (Croce e Gentile).

Il punto di partenza sta nel riconoscimento della musica come una delle modalità fondamentali dell’espressione umana. Modalità che non può essere spiegata in maniera semplificatoria con la soluzione adottata da una parte dell’etnomusicologia contemporanea – penso in particolare al pur pregevole libro di Francesco Giannattasio, Il concetto di musica (1992): la musica insieme al linguaggio e all’organizzazione sociale è uno degli universali del comportamento umano, ossia, non esiste società, dalla più primitiva alla più acculturata, dalla più angusta alla più estesa, in cui non sia presente una qualche forma di espressione musicale. Si tratta di una risposta che si limita alla registrazione, constatazione di un semplice dato di fatto.

La filosofia e l’antropologia filosofica della prima e della seconda metà del Novecento hanno fornito risposte più convincenti. In particolare, Ernst Bloch, nel § 51 de Il principio speranza, definisce la musica come un’utopia a misura d’uomo. Ancor prima, nel 1930, l’equazione musica = espressione umana è stata argomentata nel dattiloscritto-manoscritto viennese del 1930, Ricerche filosofiche sulle situazioni musicali da G. Anders-Stern. In questo caso, la musica diventa in maniera esemplare musica dell’uomo, l’unica ad avere la possibilità di trasformare la natura stessa dell’uomo. Ciò può avvenire attraverso la pratica degli strumenti musicali, la pratica vocale, la pratica dell’ascolto, che determinano qualità e spessore delle “situazioni musicali”.

La spregiudicatezza intellettuale di passare dalla filosofia della musica all’antropologia della musica, insieme all’insistenza sul valore delle pratiche musicali, agli inizi degli anni Cinquanta, è una nota di merito di Helmut Plessner. Proprio perché l’uomo fa parte degli esseri che producono suoni, è del tutto legittimo parlare di antropologia della musica.

G. Anders, E. Bloch, H. Plessner esaltano, valorizzando al massimo le diverse pratiche musicali, il rapporto musica-espressione umana.

Per quanto concerne la pratica dell’ascolto, un ulteriore approfondimento può essere fornito da una delle opere capitali della teoria musicale novecentesca, I fondamenti del contrappunto lineare di Ernst Kurth, che, limitando il valore della notazione scritta (la partitura), mette in evidenza l’esecuzione per celebrare l’intrinseca vitalità del suono.

In questa concezione, vi è una umanizzazione del suono che rende la pratica dell’ascolto coessenziale al momento creativo del compositore.

La riabilitazione delle pratiche musicali compiute dalla filosofia e dalla teoria musicale novecentesche va in direzione esattamente inversa a quella prospettata dal neoidealismo italiano, che ha sempre sottovalutato la rilevanza di qualsiasi pratica nella costruzione del processo formativo.  

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