Retrogrado, o nazista, sarà lei. Volano le accuse, trotterellano le scuse, ma la guerra estiva per la musica tra le piazze, piazzuole e angoli di Bologna, è cominciata quando ancora il termometro segnala temperature primaverili.

Da un lato l’assessore alla cultura Alberto Ronchi che tenta di rivitalizzare il tessuto sociale di Piazza Verdi, e del centro città in generale, attraverso una programmazione musicale rockettara e finalmente ordinata; dall’altro i comitati di cittadini (Via Petroni e dintorni, Scipio Slataper, Piazza Verdi) che i concerti con il volume sparato oltre i 75 decibel non li vogliono ascoltare nemmeno con le cuffiette dell’iPod.

L’opinione pubblica si divide, la maggioranza che sostiene l’assessore mugugna e traballa, e in mezzo le masse giovanili che vagano come in una psichedelica transumanza alla ricerca di un posto dove stare. Perché al di là del terrificante scherzo del destino che vuole Piazza Verdi teatro, comunque, di caos e rumore serale, è abbastanza chiaro che un luogo di ritrovo del genere, agglomerato di studenti universitari e forestieri del modenese, del ferrarese e dell’imolese, tale anche durante il giorno, o lo si blinda con una specie di militarizzazione fatta di sbarre, cancelletti, parole d’ordine e magari guardie giurate, o lo si regola dando indicazioni precise su come gestire volume e durata delle performance d’intrattenimento, o ancora lo si abbandona al destino funesto di spaccio e criminalità assortite.

Fa quindi bene il fumantino assessore Ronchi, come tutti quegli operatori commerciali che tentano di rivitalizzare l’area spazzando l’andante “degrado” sotto il tappeto, a puntare sulla riqualificazione urbana attraverso la cultura e all’innesto di “gente nuova” attirata da un programma preciso e non dall’anarchia. La politica, in un’accezione paradossalmente più utopica che pragmatica, deve essere soprattutto questo. Anche se però i soggetti rischiano di non comprendere, o forse lo sanno benissimo e il gioco al massacro rischia di far saltare il banco, che la politica in questa oramai fanfarona vecchia signora dai fianchi un po’ molli com’è diventata Bologna, la fa quella maggioranza silenziosa che in piazza Verdi non va nemmeno per una mezza birretta, un souvlaki o un felafel, un gelato alle Moline, due passi col cane (non necessariamente maltrattato dall’odioso punkabbestia di turno).

“Maggioranza silenziosa” fu un termine inventato da quei lungimiranti soloni dell’ideologia neoliberista e che permeò il reazionarismo nixoniano anni settanta: di qua la “pericolosa” controcultura del ’68 che sembrava prendere piede e dominare il mondo, di là tutti quei cittadini che non partecipavano a nessuna manifestazione culturale e sociale “radicale” e rimanevano in casa o più semplicemente defilati senza esprimersi direttamente sulla politica del paese. Ecco, questi ultimi vinsero a mani basse parecchie tornate elettorali e propinarono agli Stati Uniti vent’anni di glaciale conservazione.

Non siamo tanto lontani da quel periodo, e soprattutto non ne siamo culturalmente e antropologicamente immuni, anzi il linguaggio e la pratica dei due schieramenti bolognesi in merito alla querelle Piazza Verdi è identica. Quando l’assessore punzecchia i comitati dicendo che “se poi si preferisce che in centro si facciano solo partite di scopone, va bene” e dall’altra parte rispondono che si ricorre al Tar, la distanza con la storia si accorcia terribilmente.

Poi certo non è che per questa benedetta piazza Verdi passa la rielezione di Merola a sindaco, ma che la compattezza di un’idea di sinistra emiliana di cultura, un tutt’uno tra libertà di espressione ed etica pubblica, scricchioli e diventi motivo di “scuse” davanti al comitato di residenti che non ne può più di comprarsi tappi di cera e dotarsi di doppi vetri alle finestre, significa che a Bologna le tornate elettorali si vincono così: un passetto in avanti, due di lato, tre quattro all’indietro. Hanno vinto i comitati, si spenga Piazza Verdi e si ritorni alle tavolate di scopone. Scientifico, però.

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