In fatto di arte figurativa, la stampa italiana è un monumento alla disinformazione.

Notevole, per esempio, l’articolo di Silvia Ronchey sulla «Stampa» del 22 maggio scorso. Secondo la nota bizantinista, la battaglia civile e intellettuale contro l’acquisto pubblico del famigerato Cristo seriale ligneo di primo Cinquecento madornalmente attribuito a Michelangelo Buonarroti sarebbe figlia della maniacale polemica coltivata da Luciano Canfora contro il papiro di Artemidoro pubblicato da Claudio Gallazzi, Baerbel Kramer e Salvatore Settis.

In realtà le due vicende sono l’una il contrario dell’altra: nel caso del Michelangelo gli unici sostenitori dell’attribuzione sono quelli che l’hanno studiato per l’antiquario e/o che l’hanno comprato per lo Stato. Nel caso del papiro, tolti gli studiosi legati in qualche modo ai contendenti, si registrano più di sessanta interventi in sede scientifica dei quali solo uno nega l’autenticità del manufatto.

Comunque la si pensi, del resto, anche il significato politico e culturale delle vicende dovrebbe apparire imparagonabile. Il papiro è stato comprato dalla privata Compagnia di San Paolo, il Crocifisso rifilato allo Stato da Sandro Bondi, ministro di un governo Berlusconi che organizzò una inaudita campagna di propaganda e diseducazione dai toni sanfedisti. Ed è stata questa campagna politica (ovviamente assente nel caso del papiro) a provocare la battaglia di opinione che oggi vede alla sbarra della Corte dei Conti i funzionari che hanno acquistato il finto Michelangelo.

Ma anche su questo epilogo clamoroso si spreca la disinformazione, non sempre colposa.

Sia nel numero di maggio che in quello di giugno, per esempio, il «Giornale dell’arte» di Umberto Allemandi ammonisce i giudici contabili che stanno decidendo se accogliere o meno le richieste di condanna avanzate dalla procura.

A maggio la redazione scriveva che «è veramente raro che un giudice si assuma la responsabilità impegnativa e difficoltosa di valutare un’opera sovrapponendosi al giudizio di qualificati esperti d’arte». Una vignetta di Leo Ríos diceva poi senza mezzi termini: «dicono [chi? i giudici?] che vale poco perché non è firmato. Ma non hanno gli occhi per guardare?».

Nel numero di giugno, un pezzo di Federico Castelli Gattinara torna sull’argomento con gli stessi toni. Ripropina un fantomatico parere attribuito, senza uno straccio di prova, al defunto Federico Zeri (guarda caso dal «Giornale dell’arte» di qualche tempo fa!), definisce il responsabile internazionale per la scultura di Christie’s «funzionario privo di specifiche competenze» commerciali sulle sculture, dimentica i due libri pubblicati sulla questione (uno è mio) e, soprattutto, continua ad accreditare l’idea che i giudici contabili debbano esprimersi sull’attribuzione a Michelangelo, che sarebbe ingiudicabile in quanto non basata su documenti, ma «sull’occhio». Un tale cumulo di macerie intellettuali e disinformazione che nemmeno su «Chi» di Signorini (con rispetto parlando).

Come invece si evince dalla lettura dell’atto di citazione, la Corte dei Conti, non si picca affatto di stabilire con una sentenza se il pezzo sia davvero di Michelangelo, ma accusa l’attuale sottosegretario Roberto Cecchi di aver omesso «indagini sulla storia e provenienza del bene e omesso di acquisire un più ampio riscontro critico sull’attribuibilità dell’opera la cui necessità era stata indicata anche nel decreto di vincolo, nonché omesso di motivare in punto di economicità dell’acquisto e il corretto impiego delle risorse del bilancio ministeriale»; la soprintendente di Firenze Cristina Acidini di aver «abdicato alla propria posizione di garanzia circa la correttezza dell’acquisto ministeriale», e i quattro storici dell’arte del comitato ministeriale di non aver «avviato il confronto tra gli studiosi».

Il problema, cioè, non è il merito, ma il metodo: i funzionari dello Stato hanno speso i soldi pubblici nel rispetto della legge, della scienza e della coscienza o li hanno giocati alla roulette? Questo è il punto: ma ai lettori del «Giornale dell’Arte» non è concesso saperlo.

E perché mai il rotocalco di Umberto Allemandi pratica questa sistematica disinformazione? Chissà se il fatto che il libro che lanciò il finto Michelangelo nel 2004 (un catalogo antiquariale travestito da pubblicazione scientifica terza e istituzionale) fu pubblicato da Umberto Allemandi c’entra qualcosa.

Chissà.

Articolo Precedente

Caro Paolo Villaggio, non è il solito teatrino

next
Articolo Successivo

Mantova, il terremoto non ferma la cultura. Al Festivaletteratura c’è il Nobel Heaney

next