Quella della trattativa è la storia di un ricatto allo Stato. Uno Stato fragile in mano ad una classe dirigente incapace, e oggi chiamata a rispondere del proprio operato dalla Procura di Palermo che sulle imputazioni “eccellenti” si è spaccata, e ha perso, strada facendo, un pm: in disaccordo con i colleghi, Paolo Guido si è sfilato dall’indagine, cedendo il suo posto a Francesco Del Bene, e lo stesso procuratore capo Francesco Messineo, in corsa per la poltrona di pg, ha preferito non apporre la propria firma sull’inchiesta. Firmata, invece, da Nino Di Matteo e Antonio Ingroia.

Questa è la storia di Cosa nostra che dopo il maxiprocesso intende rifondare il rapporto con la politica piegando le istituzioni alla minaccia stragista, come ricostruisce l’avviso di chiusura indagini recapitato a 12 inquisiti. Ma è anche la storia di esponenti dei governi, di funzionari del Dap e di vertici di polizia e carabinieri che cedono alle minacce, e che cercano in tutti i modi di fermare la stagione di sangue, anche a costo di svendere la dignità del Paese. In mezzo ai padrini e alle divise, in modo felpato, si muovono gli uomini-cerniera: politici di primo piano che fanno da anello di collegamento tra i boss e le istituzioni.

La storia comincia il 12 marzo del 1992, con l’uccisione di Salvo Lima – omicidio di cui adesso è accusato Bernardo Provenzano –, voluta anche da un Riina infuriato dopo la pioggia di ergastoli del maxiprocesso. Parte da quel marciapiede di Mondello la frenetica attività del più potente uomo politico siciliano, l’ex ministro Calogero Mannino, convinto di essere in cima alla black-list di Cosa nostra, per cercare un contatto con i boss che possa salvargli la pelle fermando la furia omicida. Mannino ha paura e si rivolge agli apparati di sicurezza: incontra il capo del Ros Antonio Subranni, poi incontra anche Bruno Contrada del Sisde, e il capo della Polizia Vincenzo Parisi. Ma da quel momento in poi, la necessità di salvare i politici dall’attacco terrorista assume una grande rilevanza istituzionale, e diventa un’autentica emergenza nazionale dopo la strage di Capaci, che getta letteralmente il Paese nel caos e nel terrore.

Nel giugno del ’92, su input del suo superiore Mario Mori, il capitano Giuseppe De Donno contatta don Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, attraverso il figlio Massimo, e inizia con lui quella interlocuzione che porterà Riina dapprima all’esultanza (il pentito Giovanni Brusca racconta l’esclamazione del boss: “Si sono fatti sotto!”) e subito dopo all’elaborazione del cosiddetto “papello”, una sorta di quaderno dei desideri di Cosa nostra: abolizione dell’ergastolo, revisione del maxiprocesso, legge sulla dissociazione. È il risultato che si voleva raggiungere, e comincia a dispiegarsi, in gran segreto, la manovra per togliere di mezzo tutti gli impedimenti alla trattativa .

Il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti viene sostituito nel giro di una notte con Nicola Mancino, uomo della stessa corrente di Mannino, considerato più malleabile e indicato da Brusca come il garante istituzionale del “dialogo”. Ma le richieste di Riina sono giudicate “irricevibili” e la trattativa sembra arrivare ad un punto morto. Il capo corleonese, indispettito, alza il tiro dello scontro e spedisce i suoi killer sulle tracce di Mannino, per eseguire la condanna a morte del politico più rappresentativo in Sicilia, ma poi qualcosa gli fa cambiare idea e così il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, a saltare in aria è Paolo Borsellino, che aveva saputo del negoziato in corso. La stessa notte entra in vigore il 41 bis, con restrizioni carcerarie senza precedenti. E la trattativa sembra fermarsi di botto.

Ciancimino esce di scena, arrestato nel dicembre del ’92, e un mese dopo viene catturato anche Riina, capo dell’ala stragista, forse consegnato ai carabinieri dal suo ex socio Provenzano, che si ritrova da solo al vertice di Cosa nostra. È in questa fase che assume un ruolo di primo piano Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Silvio Berlusconi. È lui l’uomo-cerniera tra Stato e mafia nella stagione degli attentati di Roma, Firenze, Milano. Stavolta la posta in gioco per Cosa nostra è il 41 bis, l’inferno dei detenuti mafiosi. E la manovra politico-istituzionale che deve a tutti i costi proteggere la trattativa continua a dispiegarsi con mosse puntuali e precise. Le improvvise confessioni dell’architetto craxiano Silvano Larini (titolare del conto svizzero “Protezione”), ma soprattutto di Licio Gelli, mettono fuori gioco il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che si dimette dal governo il 10 febbraio, sostituito da un tecnico: Giovanni Conso.

In quello stesso mese, a capo del Dap spunta il duo Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio. Capriotti è scelto dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro in persona, Di Maggio è ritenuto un uomo fidato per i servizi. In questo quadro, Conso è autore nel novembre del ’93, della mancata proroga di oltre trecento provvedimenti di 41 bis, decisione presa – dice lui – “in perfetta solitudine”. Ma è l’ennesimo cedimento dello Stato di fronte al ricatto della mafia. Alla fine del 1993, Provenzano butta a mare il progetto politico di “Sicilia libera” (sponsorizzato dal boss Leoluca Bagarella) e stringe un patto di ferro con Dell’Utri per sostenere Forza Italia in vista delle “cose buone” che, secondo il pentito Nino Giuffrè, sarebbero state promesse ai picciotti. È ormai il ’94. Berlusconi vince le elezioni. Scrivono i pm di Palermo che Dell’Utri avrebbe agito “favorendo la ricezione della minaccia mafiosa presso l’amico Silvio dopo il suo insediamento come capo del governo”. La risposta di Berlusconi è nelle iniziative legislative adottate sotto il suo mandato. Il ricatto allo Stato è compiuto. 

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

Da Il Fatto Quotidiano del 14 giugno 2012

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