Leggo sul giornale di oggi del ragazzino di 14 anni preso a cinghiate dai genitori e ricoverato a Genova in ospedale, in stato di choc. Per fortuna si è salvato: chiedendo aiuto ai vicini di casa, che hanno chiamato la polizia.

Mi consolo pensando che lo stesso fatto che questa notizia finisca sui giornali implica che si tratta di una eccezione: non capita spesso, per cui “fa notizia”, appunto. Mentre la stragrande maggioranza di genitori affettuosi non fa notizia.

Ma il ragazzino sotto choc in ospedale non si sentirà consolato dal sapere di costuire una percentuale molto bassa: ognuno di noi vive, e in diretta, la propria esperienza personale, il proprio caso. Immagino il suo spaesamento: se non mi posso più fidare dei miei genitori, come posso vivere?

Ci immaginiamo, di solito, che i genitori vogliano bene ai loro figli, e che siano in grado di esprimere il loro affetto, e che lo sentano anche in presenza di comportamenti, dei figli, che non piacciono. Crediamo che sia “naturale”. Ma quando la frustrazione è grande – ad esempio ti aspetti fortemente, per il suo bene futuro, che tuo figlio studi e invece ti delude – chi non è in grado di gestirla può “esplodere”.

Il ragazzino, leggo, starà una settimana in osservazione in ospedale, per curare non solo le ferite riportate, ma lo stato di choc: il trauma dell’avere paura dei propri genitori non credo che in una settimana si superi. Dai tuoi genitori ti aspetti che stiano dalla tua parte, e non solo se “funzioni” come vogliono loro. La violenza è un reato, che in società diverse viene sanzionato in modo diverso: in Svezia questi genitori finirebbero probabilmente in carcere e perderebbero la patria podestà, in Germania la perderebbero, forse senza finire in carcere.

Ma non osservo l’episodio nel ruolo di un giudice.

Il fatto che non tutti i genitori esplodano in questa maniera, come fossero mine vaganti, prova che non sono le cose che accadono ad innescare la nostra reazione, ma il nostro modo di gestirla: il nostro modo di pensare a quanto accade influenza le nostre emozioni, che influenzano il nostro agire. Sia l’insegnamento buddista che quello stoico lo evidenziano: rendersene conto è il punto di partenza per „lavorare“ con la propria mente, osservando come funziona e trattando con lei per essere sempre di più la persona che ci fa piacere essere: pacifica e saggia, in grado di risolvere un conflitto senza violenza.

Per cercare di evitare comode etichette ed “errori fondamentali di attribuzione”, cosa che farei dicendo, ad esempio che i genitori sono “violenti e incapaci”, mi chiedo: come possono essersi sentiti, questi genitori, per comportarsi in questa maniera? Per farlo ricorro allo “sguardo etnografico“, e distinguo i tre passi, che immagino di osservare nella loro mente, cercando di immedesimarmi con loro (e sospendo per un attimo le mie preferenze: non mi piace che si siano comportati così, ma per ora lo metto fra parentesi. Me lo posso permettere se confido che il lavoro dei giudici lo facciano i giudici).

I tre passi sono: percepisco, vedo/sento dire qualcosa (in questo caso: mio figlio mi dice “sono stato bocciato”). Assegno un significato a questa cosa, sulla base del mio “filtro della mente”, dove conservo i miei bisogni, aspettative, valori, numerosi “devo e devi” (in questo caso, forse: “è inaccettabile! Non può essere!”), mi sento di conseguenza: sento avversione, se assegno un significato del tipo “le cose non stano andando come mi auguro”, oppure emozioni positive, se la realtà mi fa il favore di essere come preferisco (in questo caso: sento una enorme rabbia che esplode in una reazione violenta).

Il caso finito sui giornali non è certo quotidiano:  tuttavia, e per fortuna entro ben altri limiti, è tragico che proprio con le persone a cui vogliamo bene ci relazioniamo a volte in modo aggressivo. E quando la rabbia “si è sfogata”, ci dispiace.

Che dietro alla rabbia si nasconda l’impotenza? Il nostro non sapere che pesci pigliare di fronte a cose che non accettiamo? Se imparassimo a dire: “sai una cosa, di fronte a questa cosa non so proprio come reagire: non me lo aspettavo e sono molto triste, non lo accetto!”. Se imparassimo a comunicare senza imbarazzo quanto male ci sentiamo, forse non avremmo bisogno di nascondere la nostra frustrazione dietro alla rabbia.    

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