“Nomadi, non interessati al lavoro”: sono questi i principali stereotipi legati a rom e sinti nel nostro Paese. Cittadini italiani, comunitari o extra-comunitari che costituiscono lo 0,2% della popolazione, una percentuale tra le più basse d’Europa. “L’85% dei rom che arrivano dall’ex Jugoslavia, il 62% di quelli provenienti dalla Romania e il 24% di quelli bulgari ha un progetto migratorio stanziale ed è disponibile a restare in Italia”; lo dice l’indagine nazionale presentata dalla fondazione Casa della Carità di don Virginio Colmegna, realizzata su un campione di 1668 persone (in 10 regioni italiane), disponibile on-line dal prossimo 20 giugno.

La migrazione non è legata a fattori identitari o culturali: “Sono spinti dalla ricerca di lavoro e dalla speranza di trovare situazioni di vita più soddisfacenti – spiega Donatella De Vito, responsabile della ricerca – Queste comunità provengono soprattutto da contesti di povertà in Romania e Bulgaria. Differente è il caso dei rom slavi, migrati per motivi legati alla guerra”. “Il problema non è drammatico – avverte il sociologo Aldo Bonomi – bisogna inquadrare la dimensione del fenomeno. Stiamo parlando di 150 – 170mila persone diffuse in tutta Italia, di cui il 60% ha meno di 18 anni. Quindi è più disposto a dialogare”.

Il tasso di occupazione di rom e sinti in Italia è del 34,7%: di questi, uno su tre lavora in nero, mentre il 6,7% ha un contratto a tempo indeterminato. Paradossalmente per chi ha un impiego regolare, la concorrenza arriva dal lavoro sommerso. Don Massimo Mapelli racconta l’esperienza della cooperativa sociale Ies che dà lavoro a una quindicina di rom: “Operano nel mercato dei bancali. Qui a Milano non sono mai riusciti a lavorare all’Ortomercato, proprio per il mercato nero”.

Ma è nel rapporto con la città, che le istituzioni locali sono chiamate ad affrontare la ‘questione rom’, in assenza di una chiara politica nazionale. “Noi proponiamo il superamento dei campi nomadi”, spiega don Colmegna. Il 32% di rom e sinti risiede in case di proprietà o in affitto, mentre il 65% vive in insediamenti destinati esclusivamente ai gruppi rom e sinti: “Molto più che per altre minoranze, il modo con cui vengono percepite queste comunità è mediato dal modo in cui abitano”. Da qui l’invito a guardare ad alcuni esempi virtuosi come in Toscana ed Emilia Romagna, dove è stato sperimentato il ridimensionamento dei campi verso unità familiari e verso un numero limitato di persone (microaree): “Anche in questo caso si è trattato di buone pratiche, di sperimentazioni che poi non sono state adottate su larga scala”, sottolinea Donatella De Vito.

Oggi alle 15 al convegno ‘Il tavolo delle città’ organizzato alla Triennale di Milano, si confronteranno su questo tema gli assessori alle politiche sociali dei comuni di Messina, Napoli, Reggio Emilia, Torino e Milano. E proprio alla giunta Pisapia, don Colmegna rivolge un appello: “Per anni in questa città, la questione rom è stata percepita come un problema di ordine pubblico. Ora riconosciamo che il linguaggio dell’amministrazione comunale è cambiato, ma chiediamo di agire in fretta”. Dati alla mano, la casa della Carità fa quindi pressione sul capoluogo meneghino, per veder partire il piano Rom e su scala nazionale, per affrontare la questione in modo definitivo.

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