Possiamo vedere la nostra vita quotidiana come un teatro di improvvisazione: rispondiamo a quel che ci viene incontro, ai comportamenti e alle ‘battute’ degli altri, rivestiamo svariati ruoli.

La differenza: nella vita di tutti i giorni, in genere, ci identifichiamo ai nostri ruoli, sentiamo il bisogno di far bella figura, di raggiungere i nostri scopi, di aver ragione, di sentirci rispettati dagli altri; facilmente siamo quindi tesi. A volte è utile, a volte no. Se siamo molto stressati quindi un modo per abbassare la tensione è allenarci a vederci, appunto, nel grande palcoscenico del teatro del mondo.

Per far ‘scorrere’ il teatro di improvvisazione con soddisfazione di tutti, malgrado per definizione si improvvisi, ci sono alcune cose utili da sapere. Ad esempio che le modalità con cui si risponde realizzano l’armonia – o meno – della scena. Per cui si usano in modo consapevole, sapendo che effetti si vogliono ottenere.

La prima modalità è collaborare, dire di sì a quel che arriva, cooperare, andare per il verso dell’offerta che ci viene incontro, e poi aggiungere quel che vogliamo aggiungere. Con questa modalità ‘sì’ la situazione scorre fluida, come una danza.

La seconda è il rifiuto, il no, la resistenza, il ‘non sono d’accordo’: con questa il flusso si blocca, la situazione può diventare una specie di braccio di ferro, i partecipanti saranno tesi per dimostrare il valore delle loro opinioni; più si identificano con queste e maggiore sarà il bisogno di lottare. Nel dire ‘no’ sentiamo con forza la nostra identità come contrapposizione all’altro, la nostra autonomia e libertà.

Una terza modalità è: stare zitti, semplicemente in ascolto. A guardare quel che arriva, sta, passa. Non sempre è necessario reagire subito, di fretta, in modo automatico. Con questa terza modalità si lascia spazio agli altri e a quel che viene ‘messo in scena’, senza volerla occupare noi stessi, che nel frattempo abbiamo a disposizione una, magari minuscola, pausa.

Queste modalità contribuiscono a realizzare il microclima di un dialogo, come del teatro di improvvisazione. Provate allenarvi, con gli amici, e ‘sentire’ come ci si sente, nelle tre modalità.

Esempio, se un collega ti offre un caffè, mentre entri nel suo ufficio, e tu rispondi ‘No, l’ho appena bevuto’, l’atmosfera sarà diversa che se rispondi ‘preferisco un bicchier d’acqua, grazie’, rispondendo in modo affermativo all’invito di prendere qualcosa, anche se non al caffè. Se non rispondi proprio, e semplicemente osservi la scena, in una micropausa, l’altro forse se ne stupirà, dato che ti fatto una domanda.

Queste osservazioni minime servono per renderci conto del nostro contributo nel parlare insieme quotidiano, e del nostro microscopico ‘stile’. Di solito ci preoccupiamo di che cosa diciamo, e non tanto del come lo facciamo, ma come spiega Paul Watzlawick, la qualità del ‘come’ aiuta, o meno, che il contenuto del messaggio possa arrivare e venir compreso. Ad esempio: se l’insegnante di matematica mi fa paura, con i suoi modi, probabilmente mi sarà difficile capire la matematica.

Il mio tema è l’osservazione dei modi di comunicare e come allenarne di consapevoli: non tanto lo sviluppo del linguaggio, tema di cui un lettore mi chiedeva di occuparmi.

I linguaggio sono tanti: quello che si incontra in un blog o sui giornali è diverso da quello che si usa in altri contesti. Ogni professione ha i suoi modi di parlare, come ogni generazione. In tal modo ci si differenzia dagli altri e ci si identifica col proprio gruppo. In Università, ad esempio, giovani appena assunti tendono ad esprimersi in modo molto formale, per segnalare la loro appartenenza all’Accademia. Quando si sentono più sicuri di sé ritornano a un linguaggio più comprensibile anche agli studenti del primo semestre.

Se dietro ad ogni comportamento ci sono bisogni: quale sarà nascosto dietro a un linguaggio che ci pare rozzo? Dimostrare forza e coraggio? Ma, chi ha bisogno di dimostrarlo, lo sente?

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