L’ultima proposta impossibile per aiutare l’Emilia è arrivata dal ministro della giustizia, Paola Severino, in visita al carcere di Bologna: “Occupiamo i detenuti nella ricostruzione, potrebbero essere almeno 350”. Detta così sembra la trama delle “Ali della libertà”, memorabile film con Morgan Freeman e Tim Robbins. Non c’è nessuna legge in Italia che preveda, in caso di emergenza nazionale, di concedere la semi-libertà ai detenuti per il lavoro fuori dalla prigione. Se qualcuno può decidere, è il tribunale di sorveglianza, caso per caso. Poi ci deve essere una cooperativa sociale che si possa far carico del lavoro dei detenuti, infine un accordo con gli enti locali.

Insomma, una proposta che oggi porta l’attenzione altrove visto che, neanche la Regione, neanche il pragmatico Vasco Errani, ha parlato di ricostruzione. È presto, serviranno almeno cento giorni prima di poter iniziare a progettare qualcosa. Questa fase si chiama emergenza. L’altra sera c’è stata l’ennesima scossa che ha fatto tremare mezza Italia e finito di demolire gli edifici danneggiati tra Finale Emilia, Mirandola e Novi di Modena. E ieri lo sciame sismico ha proseguito per tutta la giornata, con avvisi più o meno prepotenti. Gli esperti, i sismologi, sono giorni che si affannano a dare una definizione a un terremoto quanto meno anomalo. Terremoto che, secondo le ultime stime ufficiose (l’ufficialità, su questo punto, lo ha detto anche il numero uno della protezione civile, Franco Gabrielli, non ci potrà mai essere) ha portato a 50 mila le persone senza casa, evacuate, alcune censite nei campi, altre fuggite lontano nella seconda casa o da parenti e amici.

“L’idea di impiegare i detenuti”, ha spiegato il ministro al Fatto Quotidiano, “mi è venuta mentre visitavo la Dozza. Uno di loro si è avvicinato e mi ha chiesto come potesse essere utile, mi ha chiesto di poter andare a lavorare tra le macerie. Io ho lanciato un’idea, ma la mia idea lì nasce e si ferma, in questo il ministro non ha competenze, servono i giudici, i direttori delle carceri, le coop sociali, gli accordi con gli enti locali”. Gli emiliani, zigomo forte e scarpe grosse, sanno che toccherà a loro infilare le mani nelle macerie. L’attenzione e la gara di solidarietà necessariamente è destinata a esaurirsi. Poi sarà un fatto tra loro e quello che il terremoto ha lasciato. Poco o niente, perché insieme alle case se ne sono andati il polo biomedicale più importante del mondo, i caseifici, le aziende che producono l’aceto balsamico.

Se ne sono andati anni d’investimento e il futuro, che oggi più di ieri nessuno sa quale sia. Con gli sfollati che iniziano a trascorrere le giornate aiutati dalla chimica, ansiolitici e sonniferi, soprattutto, vedono un complotto a ogni scossa: “Non ce la raccontano giusta. Non ci dicono la verità. Questa terra finirà per inghiottirci tutti. Le scosse sono più violente di quanto ci raccontano”.

Vivono in un perenne stato ansioso, come dicono gli psicologi che in questi giorni fanno il giro dei campi d’accoglienza e sono costretti a prescrivere ricette. Hanno paura, complice le sfilate in tv di esperti e presunti tali, che il peggio debba ancora arrivare. Non hanno più la percezione del tempo: “Vivono rinchiusi nelle tende”, racconta un volontario della protezione civile, un ragazzo di Ascoli che nel suo girare tra le macerie dei terremoti ha visto anche L’Aquila, “escono solo per il pranzo, poi si chiudono dentro: hanno una reazione diversa da quella che ebbero che ho visto in Abruzzo”.

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