L’eterno ritorno di Zdenek Zeman si compie in un pomeriggio alle porte dell’estate. Fuori, nelle strade, i tifosi in festa. Dentro il centro sportivo della Roma una sfinge marmorea, silenziosa, il cui unico vizio è quello di concedersi un ironico sorriso, si ripresenta al calcio italiano che conta. Assente dalla serie A da sette anni (stagione 2004-05 con il Lecce), assente dalla lotta al vertice da tredici anni (stagione 1998-99 con la Roma), il tecnico boemo è ritornato per portare il suo verbo: “Vorrei che la mia squadra riuscisse a divertire la gente e ad offrire emozioni. Poi le emozioni sono di due tipi (si può vincere o perdere, ndr), ma restano sempre sentimenti importanti”. Osare l’impossibile, osare perdere. L’importante è che la gente si diverta. Questa l’eresia zemaniana.

Fu in un altro pomeriggio di mezz’estate di tredici anni fa (ultima stagione alla Roma) che il tecnico lanciò il suo j’accuse al mondo del pallone. “Il calcio deve uscire dalle farmacie” disse. E cominciarono le indagini e i processi sull’abuso di farmaci. Zeman si fece dei nemici, troppi, e per lui allenare in Italia divenne quasi impossibile. L’inquisizione pallonara cominciò la persecuzione di questo anabattista boemo che di parole ne ha sempre pronunciate poche, ma taglienti come la lame. Zeman fu allontanato, deriso, umiliato. L’esilio lo portò in Turchia, poi di nuovo in Italia, ma in serie B. Dopo una pessima esperienza col Napoli in serie A adombrò il sospetto che quel fallimento glielo cucirono addosso apposta. Poteva sembrare paranoia, il tempo ha dimostrato che fu verità.

“In questi anni si era già prospettata la possibilità di un mio ritorno a Roma, ma tutto fu poi bloccato: non si poteva. C’è scritto in qualche interrogatorio del 2006…” racconta. Già: il 2006, l’anno della notte magica di Berlino, l’anno in cui esplose Calciopoli. Quell’anno, coincidenza, Zeman non allenava già più in serie A. Della stagione precedente alla guida del Lecce è rimasta un’immagine: Zeman, sconsolato, che gira le spalle al campo mentre la sua squadra pareggia 3-3 contro il Parma (arbitro De Sanctis…). In una di quelle partite di fine stagione dove “mancano le motivazioni”, come racconta la vulgata ufficiale. Il profeta aveva capito: quello non era più il suo calcio, non poteva esserlo. Girare le spalle al campo fu il suo modo di urlarlo al mondo.

Quell’anno l’inquisizione pallonara – sempre loro, i soliti noti, nelle farmacie come nei rapporti pericolosi con arbitri e dirigenti – anche nel momento della sua rovinosa caduta si premurò che il boemo che l’aveva sconfitta non riuscisse a rientrare in gioco. Ma loro non ci sono più, e lui è di nuovo qui. “Sono tornato, l’avevo promesso”, mormora felice oggi con un filo di voce. Dopo il secondo esilio è ripartito dalla Serbia. Poi la Lega Pro, il ritorno a Foggia, la città dove all’inizio degli anni Novanta l’eretico e godereccio paradiso in terra zemaniano si guadagnò l’attenzione del grande calcio: lì nacque Zemanlandia, laboratorio del divertimento dove si dimostrò che un altro calcio è possibile.

Poi Pescara, una stagione strepitosa, condita dalla promozione e dal lancio di nuove promesse del firmamento calcistico, come al suo solito. Sempre uguale. Fedele alla linea del suo 4-3-3 iper offensivo fatto di sovrapposizioni, fuorigioco e triangoli laterali rapidissimi. “Anche se a qualcuno piace dire che io sia cambiato, e allora glielo lascio credere. Ma preferisco sempre costruire che distruggere: sono un uomo di pace”. Se nel 1999 il primo esilio coincise con le denunce contro il doping e il secondo nel 2006 con Calciopoli, nel 2012 il suo ritorno avviene nell’anno del calcioscommesse. “Diciamo che in questo periodo nel calcio qualcosa è cambiato. Anzi, se non fosse cambiato non sarei tornato. E’ migliorato sotto i primi due aspetti, mentre per il terzo (le scommesse, ndr) ci vorrà ancora molto per uscire”.

Zeman è tornato per insegnare il calcio e il rispetto, ai suoi ragazzi, agli avversari e anche ai tifosi. E’ tornato per fare divertire, per regalare emozioni. Ieri il Wall Street Journal, di solito poco propenso ad occuparsi di calcio, ma che per un artista come Zeman si è concesso volentieri un’eccezione, gli ha dedicato un articolo e una foto con la didascalia “Il ritorno dello Jedi”. Perché il boemo è tornato per combattere contro le forze oscure che minacciano il gioco più bello del mondo. Anche se lui si schernisce, e sottovoce risponde: “Troppo difficile fare il cavaliere. Sono solo una persona normale, cui piace insegnare calcio e cercare di trasmettere quello che sa per migliorare il prossimo”. Umano, troppo umano. Anche questa è l’eresia zemaniana.

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