Parmalat formato Lactalis non convince. Un anno fa, quando i signori francesi del latte e dei latticini presero il controllo del gruppo di Parma, sostituendo il risanatore, Enrico Bondi, avevano speso parole (poche, a dire il vero, perché la comunicazione del gruppo è ridotta all’osso) per promettere il rilancio industriale di Parmalat: sinergie, innovazioni e più ne ha, più ne metta. E’ trascorso un anno, appunto, ma il minimo che si possa dire è che le aspettative siano state disattese. Pochi giorni fa sono stati pubblicati i conti 2011 di Parmalat. Non proprio entusiasmanti.

Il fatturato è cresciuto del 4% a 4,5 miliardi di euro. Ma l’utile netto è sceso da 285 a 170,9 milioni di euro (e i profitti derivano solo dai proventi finanziari). E in effetti è soprattutto la gestione industriale a deludere, sulla quale, invece, i francesi dovevano fare faville: è calato il risultato operativo (da 344 a 199 milioni) e i margini sul fatturato sono stati quasi dimezzati (passando dal 6,5 al 3,8 per cento). E dire che Emmanuel Besnier, il padrone (misterioso) di Lactalis, aveva annunciato l’intenzione di trasformare Parmalat nel gigante europeo del latte confezionato. Quella volontà era stata inserita anche nel prospetto dell’Opa, alla quale Lactalis era stata costretta per fagocitare Parmalat. In realtà pochi sforzi, all’apparenza, sono stati fatti in questo senso. I francesi si sono concentrati su altro. Sulla finanza, prima di tutto.

L’ultimo esempio è rappresentato dall’acquisizione controversa, il mese scorso, delle attività americane di Lactalis da parte di Parmalat, utilizzando già la metà di quel “tesoretto” di circa 1,5 miliardi, messi insieme da Bondi nelle casse del gruppo italiano. L’attuale presidente Francesco Tatò lo ha definito, all’assemblea dove sono stati approvati i conti annui, la scorsa settimana, “un buon affare”. Ma il rappresentante del fondo Amber, azionista con l’1,97%, ha parlato di “operazioni infragruppo non corrette, né sul piano formale né su quello sostanziale, che sembrano mirate a realizzare più l’interesse del gruppo di controllo che di tutti gli azionisti”. Perché a incassare la metà del famoso tesoretto sono stati, appunto, i francesi di Lactalis, che cedevano quegli asset statunitensi. D’altra parte nell’autunno scorso già Mediobanca aveva fatto notare che il gruppo avrebbe potuto avere difficoltà a rimborsare le varie tranche di debito che aveva dovuto contrarre per “digerire” l’Opa. Ecco il modo più semplice per fare cassa: succhiare dai bilanci della controllata italiana.

Fin dagli inizi, su Lactalis si sono accumulate storie (o forse mitologie) che hanno fuorviato rispetto a una corretta valutazione del nuovo padrone di Parmalat, numero uno del latte in Europa. In Italia qualcuno si è fato delle illusioni. O non ha voluto guardare in faccia la realtà. Lactalis è una multinazionale, ma anche un gruppo familiare al 100%, nelle mani di Emmanuel Besnier e dei due fratelli (questo permette loro di non avere l’obbligo a pubblicare i conti del gruppo, compresi quelli sul pesantissimo indebitamento). Creato dal nulla dal nonno, nella città di Laval, nella Mayenne, Francia profonda dell’Ovest, il gruppo resta ancora radicato in quella zona. Emmanuel Besnier (che non si fa mai intervistare e fotografare il meno possibile) vive lì, frequenta ristoranti economici e lo si vede in giro su una Mazda grigia. Tutto faceva pensare all’imprenditore di altri tempi (ma ha solo 41 anni), concentrato sul prodotto, con la testa assorbita dagli sviluppi industriali e basta. Le cose non stavano propriamente così. Dal 2000, quando Michel Besnier, il patriarca, morì all’improvviso, il giovanissimo Emmanuel, che si ritrovò con le redini in mano, già brillante studente di business, si lanciò in una frenetica corsa alle acquisizioni in tutto il mondo, oltre che di concorrenti francesi nel proprio settore: marchi e marchi, poi tutti uniformizzati. Comprati indebitandosi.

Insomma, industriale puro fino a un certo punto: uomo di finanza, soprattutto. Un anno fa, quando Lactalis fu costretta a lanciare l’Opa su Parmalat, fu obbligata anche a fornire qualche dettaglio sulla propria salute finanziaria, compreso sui debiti che, si scoprì, ammontavano (allora) a ben sette miliardi di euro. Qualcuno cominciò a pensare che i francesi, affamati di liquidità, più che ad altro fossero interessati solo al famoso “tesoretto”. 

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