processo eternitBisogna vederla, la Romana. Hai voglia a immaginarla quando ti dicono che è una piccola donna di ferro che ha passato decenni a guidare la lotta per i diritti delle vittime dell’amianto. Poi la vedi piccola con i brevi ricci biondi all’indietro, le scarpe a tacco largo, il vestito blu con larghi disegni bianchi di quelli che le donne del popolo sfoggiano nelle grandi occasioni da ballo del sabato sera. La vedi con le mani in seconda come una scolaretta, come ormai non sta più nessuno, quando ti ascolta.

Mentre ti racconta che è della provincia di Gorizia, non l’han chiamata certo così perché è di Roma. E ti fai prendere dalla sua grandezza, che è senza scarpe né vestiti né accento. La Romana, di cognome Blasotti Pavesi, è semplicemente un pezzo della storia industriale d’Italia, del mondo. L’epopea di quella fibra naturale, nemmeno chimica, così ricca di proprietà, così vigliaccamente mortale, venti, trenta, anche quarant’anni di incubazione per poi fotterti le pleure e ucciderti. Se l’hai lavorata, se l’hai respirata sul posto, se è volata nell’aria e ti ha raggiunto come in una lotteria all’incontrario. Amianto. La Romana incontrò questa storia terribile andando in sposa a un operaio dopo sette mesi che lo conosceva. “Era generoso, giusto nella sua maniera di vivere. Aveva fatto la guerra, era formato, mi sono fidata”. Per vivere a Casale Monferrato, il luogo della morte “anche se è una bella città, questo devo ammetterlo, lo posso dire, no?” Aveva avuto qualche dubbio vedendo sui muri lungo la fabbrica, la Eternit, “i manifesti mortuari”, uomini che se ne andavano di continuo. Ma il Mario, il marito operaio che ogni giorno si prendeva la bici e andava in fabbrica contento perché il posto in fabbrica era sicuro come un posto in banca, la tranquillizzava: sono i parenti degli operai, hai presenti quanti sono gli operai? Pensa a quanti sono i parenti… qualcuno dovrà pur morire.

E invece erano gli operai che cadevano uno dopo l’altro. Mentre la proprietà smentiva, e pagava scienziati traditori e spie di fabbrica. Finché nell’83 il Mario morì. E la Romana iniziò a diventare la Romana . La vedova che chiedeva giustizia e guidava gli altri a chiederla. Poi le morì anche la sorella Libera. E poi pure la nipote, la figlia di Libera. E una cugina, questa non a Casal Monferrato ma al confine con la Slovenia, in un altro posto dove si lavorava amianto. E infine nel 2004 la figlia, Maria Rosa, la secondogenita. Le piombò un giorno in casa con il fratello e le disse di sedersi perché doveva dirle una cosa. Ce l’aveva anche lei, il mesotelioma, la malattia dell’amianto. Era andata a farsi visitare da un medico. Era bastato vedere la lastra al muro e non aveva avuto bisogno di una parola. D’impulso la Romana le giurò “non ti lascerò andare”, ma in cinque mesi se ne andò lo stesso. Voi penserete che la Romana nel suo abitino blu a grandi disegni bianchi si metta a piangere quando racconta questa storia. E vi sbagliate, perché la Romana non riesce più a piangere, non ne è proprio più capace, e invece a volte lo vorrebbe, “ne avrei bisogno”. Racconta il capitalismo più gaglioffo con le braccia conserte, e il medio della sinistra che ogni tanto si alza a togliere da sotto gli occhialini lacrime che non scendono. Non ha il linguaggio del tribuno, “non mi vengono altre parole, io dico così”, ma andrebbe avanti perore, troppo profondo e ingiusto è il pozzo dei ricordi. Aveva diciannove anni quando si sposò con il Mario e ora ne ha ottantatré, gli ultimi trenta passati a battagliare contro quei proprietari, lo Stephan Schmidheiny pure in fama di filantropia, che spiegavano che l’amianto non faceva male, anche il prestigioso Le Monde l’aveva scritto che era come l’acqua, dipendeva da come lo si trattava. E il fumo allora, non fa male? Milleottocento ne ha uccisi l’amianto a Casale.

E ancora oggi, a decenni dalla chiusura della fabbrica nel 1986, ne muoiono una cinquantina l’anno. La Romana li ricorda tutti, e tutto sa della scia infinita di umanità dolente di figli senza padri e di padri senza figli e di vedove sole. Parla con ammirazione del giudice Giuseppe Casalbore, che ha diretto il processo a Torino, e del pubblico ministero Raffaele Guariniello. Non se ne sono persa una di udienza, sessantasei viaggi in pullman Casa-le-Torino-Casale tutte le volte, tutti insieme, perché le voci dei propri cari rimbombassero silenziosamente nel dibattimento. “Erano bravi quei giudici, sembrava che pensassero solo alle carte e invece avevano un cuore, e noi lo sentivamo”. Fino alla sentenza di condanna per disastro doloso. Sedici anni contro i proprietari. E indennizzi vicini ai cento milioni di euro. Tre ore e un minuto solo per leggere i nomi delle parti civili. “Chissà se pagheranno mai quei soldi”. Lei in realtà una sua fantasia sulla pena ideale se l’era fatta: costringerli a seguire tutto il calvario di un condannato a morte d’amianto, meglio se un figlio. Pensa, la Romana. E ricorda quel giudice istruttore di Casale che vent’anni fa li aveva esortati a mettersi il cuore in pace, “perché questo processo non si farà mai”. È soddisfatta di sé, per avercela fatta a tirare fin qui, perché “a Casale non ci siamo fatti comprare”. Incanta con la sua tenerezza, la stessa a cui, non per caso, Giampiero Rossi ha voluto dedicare “Amianto”, il suo recente libro-denuncia. Dice che non vuole vendetta. La solita invidiabile serenità? No, “l’astio ce l’ho, mi hanno fatto abbastanza male”. “Abbastanza male…”. Bisogna conoscerla, la Romana, ve l’avevo detto subito, no? Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2012

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