Oggi è la ricorrenza del massacro della Mavi Marmara. Mavi che? Immagino che non tutti si ricordino di quando avvenuto due anni fa, anche perché in effetti quasi nessuno ne parla piú. 

Eppure i fatti erano gravissimi e provocarono vero sgomento a livello internazionale: nove civili innocenti e disarmati furono uccisi, moltissimi altri feriti e arrestati dopo essere stati assaltati dalla marina israeliana in acque internazionali.  La Mavi Marmara era la barca turca che faceva parte della flottilla salpata nel maggio del 2010 da vari porti del Mediterraneo con l’obiettivo di forzare, di rompere l’illegittimo blocco di Gaza che imprigiona una popolazione di oltre un milione e mezzo di persone da ormai 6 anni ininterrottamente. 

Si trattò di un attacco sproporzionato nei loro confronti, condannato gravemente a livello internazionale, un crimine palese di cui tuttavia il governo israeliano si è ostinatamente rifiutato di chiedere scusa, cercando di fare passare gli attivisti per dei simil-terroristi, creando anche un pesante incidente diplomatico con la Turchia. 

A due anni di distanza le famiglie dei nove attivisti uccisi (otto di nazionalità turca e un turco/americano) attendono ancora giustizia. Diverse commissioni di indagine a livello interno, israeliano, internazionale, ONU – tra cui lo scandaloso rapporto Palmer, su cui ho giá avuto modo di esprimermi, come anche altri, in modo estremamente critico – sono state messe in piedi; ma al di lá della condanna generica per quanto avvenuto, nessuna di queste commissioni ha avuto il potere di giudicare sulle responsabilità concrete di chi autorizzò e decise quella sciagurata operazione di arrembaggio delle navi della flottilla diretta a Gaza. 

Per una volta lascio da parte lo sconfortante quadro a livello giuridico, per raccontarvi la mia personale esperienza di quel momento. 

Quando tutto ciò è avvenuto ero a Kampala, in Uganda. Per una strana e beffarda coincidenza l’attacco alla flottilla è coinciso precisamente con l’apertura della mega conferenza di revisione della Corte Penale Internazionale, a Kampala per l’appunto. Praticamente il più importante consesso sul diritto penale internazionale degli ultimi anni, la prima occasione – a 12 anni dalla firma del trattato istitutivo – per modificare lo Statuto della Corte e trarre le fila di questi primi anni di attività. 

Delegati di circa 90 stati erano lì riuniti, insieme ai membri della Corte, centinaia di Ong da tutto il mondo, insigni accademici, esperti, parlamentari e funzionari europei, i più alti rappresentanti dell’Onu, incluso il Segretario Generale Ban Ki Moon. Io mi trovavo lì in quanto studiosa della materia ma, essendo Kampala capitata in mezzo al mio periodo ‘gazano’, ero lì anche in veste di rappresentante del Palestinian Centre for Human Rights che peraltro a sua volta, essendo l’unica organizzazione palestinese lì presente, si faceva in qualche modo portavoce di tutte le istanze provenienti dalle vittime dei crimini commessi nei territori occupati. 

La mattina del 1 giugno 2010, all’apertura della conferenza, lo shock per quanto avvenuto la notte precedente era visibile su tutte le facce. Non si parlava d’altro; i delegati erano totalmente increduli, sgomenti; si seguivano i fatti sui telegiornali (che a un certo punto parlavano di 20 morti) e il clima che si respirava era quasi surreale. Ricordo bene quella sensazione: ciò che era accaduto era semplicemente troppo immenso e la coincidenza con la conferenza della Corte Penale Internazionale troppo pazzesca perché non ci fossero immediate conseguenze, cambiamenti, decisioni a livello internazionale. 

Con il mio collega irlandese Daragh ci siamo messi subito freneticamente al lavoro: anzitutto partì una durissima lettera di denuncia firmata da decine di organizzazioni da tutto il mondo. Dal nostro punto di vista non si trattava solo delle vittime della flottilla; quei morti erano la conseguenza di un crimine piú grande: il blocco di Gaza

Ció di cui avevamo bisogno era una presa di posizione immediata del Consiglio di Sicurezza dell’Onu! In fondo proprio con le nostre orecchie la sera prima avevamo ascoltato il Segretario Generale (che veniva insignito del neo istituito premio per la giustizia penale internazionale) dichiarare con aria rassicurante “You can count on me!”, rivolto ad immaginarie vittime di crimini internazionali. Ricordo che abbiamo letteralmente rincorso Ban Ki Moon per due giorni (prima che partisse) per consegnargli a mano una lettera che chiedeva al Segretario Generale che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu riferisse subito la questione alla Corte Penale Internazionale

Ovviamente non siamo neppure riusciti a consegnargli la lettera. Il senso di frustrazione di quelle ore è difficile da descrivere. Frustrazione che del resto è solo cresciuta nei successivi due anni, in cui, non solo i responsabili di quel massacro non sono stati puniti, ma soprattutto i civili di Gaza continuano a soffrire imprigionati in un blocco illegale, con effetti devastanti, di cui la comunitá internazionale pare ormai essersi disinteressata. 

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