C’è stato di recente un certo rumore per un rapporto del Preventive Service Task Force degli Stati Uniti che sostiene la sostanziale inutilità del test PSA per la diagnosi precoce del tumore della prostata; l’argomento è già stato trattato su questo giornale con due argomenti: il test è poco affidabile e anche quando aiuta a fare la diagnosi a questa non consegue sempre una terapia perché il tumore è lento nello sviluppo ed ha bassa malignità. Varie associazioni di urologi hanno aspramente criticato questo rapporto, sostenendo che la diagnosi precoce del tumore prostatico effettuata mediante dosaggio del PSA può salvare molte vite, e che, anche se il test non è completamente affidabile, non abbiamo niente di meglio (si veda, ad esempio questo documento). Non intendo ripercorrere in questo post cose già dette o già note; inoltre non voglio pronunciarmi sullo specifico merito della questione che è molto specialistico ed è dibattuto in modo approfondito nei documenti linkati a questo post. Voglio invece affrontare un problema generale: come è possibile che esistano opinioni così divergenti su un argomento scientifico, che dovrebbe poter essere risolto in modo anequivoco e oggettivo con studi clinici e casistiche.

Quando si va a misurare un parametro biologico come l’Antigene Specifico della Prostata (approfondimenti qui) di solito si trova che non ha lo stesso valore in tutti gli individui della popolazione, ma che si distribuisce secondo una curva a campana, nella quale i valori medi sono frequenti e quelli estremi sono rari. Si puo’ facilmente immaginare questa situazione se si considera come sono distribuiti valori come l’altezza o il peso: tante persone sono alte circa 1,70 o pochi sono alti meno di 1,40 o più di 1,90. Una distribuzione di questo tipo, se simmetrica rispetto al suo valore medio, si chiama Gaussiana ed è caratterizzata oltre che dal valore medio anche da un parametro chiamato deviazione standard che dice se la campana è larga o stretta. La prima domanda che un medico si pone di fronte ad un test diagnostico è quindi quale sia il valore medio nella popolazione sana e quale sia la sua deviazione standard; e la prima sorpresa che uno incontra per il caso del PSA è che questi valori non sono noti con precisione (c’è un articolo importante su questo punto, che dovrò citare ancora, pubblicato nel 2004; il primo autore si chiama Thompson e il testo si può consultare gratuitamente a questo link.

L’applicazione pratica di un test diagnostico è più complicata di così: infatti la popolazione è divisa in due gruppi, la cui composizione ci è ignota: i malati, che hanno il tumore della prostata, e i sani, che non lo hanno; ciascun gruppo ha la sua distribuzione a campana dei valori del PSA con la sua media e la sua deviazione standard e il valore medio nel gruppo dei malati è più alto che nel gruppo dei sani. Purtroppo le deviazioni standard sono elevate e i valori dei due gruppi si sovrappongono. Nello studio di Thompson citato sopra avevano questo tumore (cioè appartenevano al gruppo dei malati) il 15% delle persone che presentavano valori di PSA normali, cioè inferiori a 4 ng/mL. Consegue che il dosaggio del PSA, che dovrebbe distinguere sani da malati, commette molti errori: falsi negativi (persone che hanno il tumore ma hanno valori di PSA normali); e falsi positivi (persone che non hanno il tumore, pur avendo valori elevati di PSA): la diagnosi precoce, in questo caso, è una diagnosi poco accurata. Quando si considera il valore sociale di un test diagnostico, ci si pone in un’ottica di valutazione di costi e benefici. Un test applicato alla maggioranza della popolazione è sempre costoso, anche quando la singola applicazione è economica; inoltre i falsi positivi vanno incontro a ulteriori accertamenti diagnostici più invasivi, del tutto inutili con disagi, rischi e costi, mentre i falsi negativi che hanno il tumore non vengono diagnosticati né curati. Inoltre la maggioranza dei tumori della prostata ha evoluzione molto lenta e raramente è la causa di morte del portatore, quindi una politica aggressiva dal punto di vista diagnostico e terapeutico rischia di causare danni oltre che benefici.

Non sono un urologo e non posso dare pareri o consigli: non so se sia bene seguire le indicazioni della Preventive Service Task Force e non fare il test del PSA o seguire quelle degli urologi del LUGPA e farlo. Sono donatore di sangue e un test del PSA all’anno rientra nelle mie analisi di routine: quindi non posso neppure dire al lettore quale alternativa scelgo, perché non scelgo (però suggerisco a tutte le persone sensibili di considerare la possibilità di donare il sangue: serve alla società e si viene seguiti dal punto di vista medico).

Traggo invece una conclusione politica: può darsi che il PSA sia utile oppure può darsi di no, ma non ci si può illudere che un programma sanitario di diagnosi precoce su larga scala sia economico perché va praticato sull’intera popolazione, sui sani che sono tanti anziché sui malati che sono pochi, e perché in molti casi (falsi positivi) implica accertamenti, e quindi costi, ulteriori. Si consideri solo questo: se un test costasse in tutto soltanto 10 euro e fosse applicato a 10 milioni di persone ogni anno il costo per il SSN sarebbe di 100 milioni di euro all’anno! Inoltre il PSA non è l’unico test diagnostico “consigliabile”: ce ne sono tanti, altrettanto o più importanti (se ne scegliessimo dieci, al costo riportato sopra, farebbero un miliardo di euro all’anno). Quindi: chi è favorevole ad un programma di diagnostica precoce del tumore della prostata (o del seno, o dell’utero) non può essere favorevole anche ad una politica di risparmio e di riduzione dei costi della sanità (e quindi delle tasse). I diritti costano e anche chi (come me) pensa che debbano essere garantiti non può pensare che sia facile o indolore averli, tanto più che non si limitano alla sanità: abbiamo altrettanto bisogno di scuola, giustizia, ordine pubblico, etc. Chissà fino a quando riusciremo a permetterci la nostra civiltà?

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