Qualche tempo fa ho letto una vignetta che diceva più o meno così: “Brillante, plurilaureato, plurispecializzato: British professional? No, precario italiano”. È questo il leitmotiv della serata di Venerdì 25 Maggio all’Old Cinema di Londra, organizzata da Il Fatto Quoditiano, La Fonderia Oxford, Quattrogatti.info, Tilt e Roars, Return on Academic Reasearch. La serata, assai intensa e ricca di interventi, aveva una lunga lista di ospiti: ad aprire c’erano Marco Travaglio, Antonio Padellaro, Cinzia Monteverdi e Emanuele Ferragina, mentre Paolo Falco, Paolo Lucchino e Enrico Sitta insieme a me hanno chiuso la seconda parte, felicemente coordinata da Giorgio Meletti. 

Il tema della serata era “l’Italia da Berlusconi a Monti”, ed è stato interessante per varie ragioni. Primo perchè dentro l’Old Cinema c’era l’Italia diffusa, o una generazione diffusa, o ancor meglio una sensibilità diffusa: quella di chi non si rassegna a divenire preda di politiche poco lungimiranti, spesso votate, come spiegavano gli interventi, a fare cassa subito, tagliando dove non si dovrebbe mai tagliare: le pensioni, la sanità, la scuola o l’università, in nome del vecchio principio di Petrolini per cui “i poveri hanno poco ma sono in tanti”. Ma è stata interessante anche perchè consentiva di fare il punto della situazione. Partiamo da un dato semplice: perchè mai la sala dell’Old Cinema era piena di young professionals italiani che risiedono all’estero? L’Italia non era forse uno degli ultimi paesi occidentali per numero di laureati? E perchè quelli che ci sono se ne vanno? 

In risposta a questa domanda Marco Travaglio e Antonio Padellaro hanno offerto una dettagliata disanima dell’infelice continuità tra le politiche degli ultimi due governi, alternando al riconoscimento dell’andamento tragicomico della politica italiana un condiviso senso di urgenza sociale. La seconda parte della serata analizzava la riforma del lavoro e la riforma universitaria. Glenn Harland Reynolds la chiama “bolla formativa”, quel processo per cui l’istruzione e la conoscenza negli ultimi trent’anni si sono diffuse più di quanto il mercato riuscisse ad assorbirle. Troppi “laureati in nulla”, dunque, come voleva De Rita? O troppe lauree inutili, come voleva la Gelmini? No, forse semplicemente un mercato occupazionale che, come riporta l’ultimo rapporto Almalaurea, non è all’altezza della fase storica in cui viviamo nè delle intelligenze del paese. Ecco che dietro alle biografie dei presenti in sala troviamo quelle storie precarie che oggi ben conosciamo, e che a differenza d’altri hanno optato per la “fuga dei cervelli”. Lo scorso anno il primo rapporto Istat sulla fuga dei cervelli parlava di un circa 7% di dottori di ricerca che espatria. Aldilà del fatto che il dato è sottostimato, perchè si basa su un cambio di residenza che non necessariamente gli expats registrano, né chiaramente ritrae tutti coloro che se ne vanno, ciò che è innegabile è che il dato è in crescita, e che sempre più spesso chi se ne va sono proprio giovani professionisti, laureati, dottori di ricerca, scienziati. “The third wave” ad esempio era il titolo di una mostra fotografica del Museo italo-americano di San Francisco, che narrava come la terza ondata migratoria di Italiani negli Stati Uniti non fosse più caratterizzata da scatole di cartone, bensì dagli Italian Scientists and Scholars of the North American Foundation, gli scenziati e gli accademici attratti dalle opportunità di ricerca della California della Sylicon Valley.

Ritorniamo sempre allo stesso punto: lo sviluppo italiano investe troppo poco in cultura e troppo poco in ricerca e sviluppo, con il risultato che da un lato penalizza i lavoratori più qualificati, e dall’altro mette a rischio chi, come il terremoto in Emilia ci conferma, si trova costretto a lavorare in fabbriche di carta, prive di investimenti minimi in infrastrutture e sicurezza. I dati OCSE lo dicono da tempo: l’Italia è penultima per imprese innovatrici, è ultima per spesa in ricerca e sviluppo, ultima quanto a personale ricercatore nelle imprese rispetto agli altri paesi europei. Ecco che la cosiddetta competitività italiana si sostiene soprattutto con i corpi, il fenomeno che Emiliano Brancaccio definisce giustamente come “produzione di merci a mezzo vittime”.

Che fare, dunque? Per fortuna c’è un’altra Italia, ha concluso Travaglio. C’è l’Italia diffusa che raccoglie “intellettuali e cittadini riuniti a difesa dei “beni comuni”, movimenti che un anno fa hanno vinto i referendum per l’acqua pubblica, “associazioni antimafia, anti-Tav, anti-inceneritori, occupanti di spazi culturali, magari la Fiom. La vittoria dei movimenti ambientalisti contro la discarica di Villa Adriana “dimostra che il sistema è fradicio, dunque fragilissimo. Si abbatte con un grissino. Basta qualche braccio giovane che spinga”.

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