I boss sanno come lanciare messaggi all’esterno. Anche quando sono detenuti in regime di carcere duro. E così ha fatto l’altra sera Salvatore Pesce, detto “U babbu” fratello del capoclan Antonino,  a processo davanti al Tribunale di Palmi insieme ad altri 60 imputati contro la cosca di Rosarno (Reggio Calabria). Il boss, padre della pentita Giuseppina Pesce che con le sue dichiarazioni ha permesso arresti e sequestri, nell’aula bunker di Rebibbia ha chiesto di fare dichiarazioni spontanee. Ma le riflessioni di Pesce erano rivolte solo al pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti: ”Lei ha commesso un abuso facendo arrestare mia moglie e mia figlia Marina. E adesso cosa vuole fare? Le vuole vedere morte?”. La moglie di Pesce, Angela Ferraro, e la figlia Marina furono arrestate in Lombardia, su richiesta del pm, nell’aprile del 2011 con l’accusa di essere affiliate alla cosca. Come del resto era Giuseppina, arrestata dopo il primo blitz dei carabinieri del Ros con l’operazione “All Inside” e poi diventata collaboratrice di giustizia per garantire un vita migliore e un futuro diverso ai suoi tre figli. 

Il pm, che un solo carabiniere a tutela della sua sicurezza, ha chiesto l’acquisizione del verbale delle dichiarazioni di Salvatore Pesce perchè possa trasmetterlo alla Procura della Repubblica di Roma per valutare l’eventuale rilevanza penale delle affermazioni del boss.Secondo il Pesce, che avrebbe ereditato le redini della cosca dopo l’arresto del fratello, il pubblico ministero avrebbe commesso un abuso. “Quello della moglie e della figlia è stato un arresto illecito. Lei è andata fino a Milano per minacciarle. Per quanto mi riguarda, sono detenuto al 41 bis e di questo la ringrazio. In realtà lei abusa del suo ufficio”. Di quanto possa aver dato fastidio a il lavoro del pubblici ministeri e la collaborazione di Giuseppina alla cosca, che aveva anche il bunkerista di fiducia ed è una delle famiglie più attive nella Piana di Gioia Tauro e anche con diramazioni all’estero, lo si comprende con la frase che lo zio di Giuseppina, Giuseppe Ferraro, ha detto venerdì 18 maggio: “Da lunedì che inizierete a sentire mia nipote vi consiglio di munirvi di uno psichiatra. Si, perché a mia nipote serve lo psichiatra”. 

Il processo alla cosca Pesce è iniziato nel luglio dell’anno scorso.  Il 20 settembre scorso, invece, sono arrivati i primi verdetti per chi invece aveva scelto il rito abbreviato. Cinquanta milioni al Comune di Rosarno e dieci milioni ciascuno alla Regione Calabria ed al Ministero dell’Interno sono stati i risarcimenti per danni morali disposti a carico degli undici presunti affiliati decisi dal gup distrettuale di Reggio Calabria, Roberto Carrelli Palombi. Tra i condannati  anche due dei capi del gruppo criminale, Vincenzo e Francesco Pesce, di 52 e 33 anni, zio e nipote. Per loro il gup ha disposto una pena di 20 anni di reclusione, la più alta tra gli imputati del processo. Francesco Pesce, arrestato dopo una latitanza era stato sorpreso in un bunker realizzato in un’azienda agricola nelle campagne di Rosarno.

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