Adesso che il programma, e tutto quello che gli è girato intorno, è passato, cancellato da vicende assai più tristi, voglio tornare su Quello che (non) ho, per cercare di capire una cosa che non riesco mai a spiegarmi fino in fondo. Chi sono quelli che non sopportano Fazio e Saviano e la loro televisione? Dunque, secondo me, ci sono tre gruppi di insofferenti.

Il primo gruppo è costituito da quelli che perdono la trebisonda di fronte all’idea che ci siano dei personaggi appartenenti, pur in modo vario e sfumato, all’area della sinistra, che fanno un programma in cui si parla, con serietà e con successo, di legalità e di impegno civile. Sono, per non fare nomi, i Sallusti, i Belpietro, gli Sgarbi, i Ferrara, che si arrampicano sugli specchi, una volta – quando c’era di mezzola Rai- dicendo che non si possono fare programmi di parte con i soldi pubblici, un’altra – quando i soldi pubblici non ci sono più – scoprendo altre contraddizioni. In questa loro furia spesso diventano, per quei delicati meccanismi tipici dei media, i più grandi sponsor del programma che vorrebbero annientare, ma non importa, l’importante è poter urlare allo scandalo.

Poi c’è il gruppo di quelli che sono infastiditi da alcuni dettagli del lavoro di Fazio e Saviano, dalle scivolate nella retorica o nel patetico, dalla prevedibilità di qualche scelta, dalla ripetizione di qualche battuta. Cose vere; ma forse non si accorgono – quelli che si concentrano su queste cose – che, per usare una metafora molto di moda, stanno guardando il dito e non la luna, che per dare a questi difetti la loro giusta dimensione di imperfezioni marginali basta la carrellata in avanti, con cui la regia introduce il monologo di Saviano: bastano (e avanzano) i dieci minuti di presenza di Paolini.

E infine, nel terzo gruppo, ci sono quelli che non sopportano che Fazio e Saviano abbiano invitato Paolini o Magris o Olmi e non loro. E questi proprio non gliela perdoneranno mai.      

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